Intervista a Milo De Angelis

Gentile prof. De Angelis, scriveva Alejandra Pizarnik: “Continuano a dirci, da tempi immemorabili, che la poesia è un mistero. Ciò nonostante, la riconosciamo: sappiamo dove si trova.”
Secondo Lei, intanto, perché la poesia è un mistero? Asseriva Raboni nell’ “Autoritratto del 2003”: “mi riesce totalmente estranea l’idea di una poesia che nasca come ‘oggetto di laboratorio’: la poesia è qualcosa che si impone a noi, non qualcosa che noi imponiamo a noi stessi o alla realtà”. Possiamo dire che in questa ‘imposizione’ risieda il mistero? E quando sentiamo di essere in sua presenza?

Giovanni Raboni dice il vero: pensare la poesia come oggetto di laboratorio significa annientarla. Sono passati tanti anni e non siamo più ai tempi del Gruppo ’63 (a cui sicuramente si riferiva Raboni) ma purtroppo ancora oggi molta della cosiddetta “poesia di ricerca” va in quella direzione, nel tentativo di opporsi a una poesia come confessione o diario privato. Il tentativo in sé è accettabile, perché la grande poesia non è mai un fatto privato. Ma la poesia di ricerca finisce per abolire insieme all’intimismo anche tutta la dimensione esistenziale e drammatica della poesia, riducendola a un gioco di parole e sopprimendo la potenza del mistero da cui essa è animata. E la parola “mistero” non ha per me nulla di religioso ma allude al buio in cui è immersa la poesia, a qualcosa che oltrepassa la nostra intelligenza e ci scaglia in un mondo di contrasti, segreti e ferite a cui non sappiamo rispondere.

Che cos’è, allora, per lei la poesia? Sempre la Pizarnik scriveva: “la poesia non è una carriera, è un destino. Sicché affermo che essere nata donna è una disgrazia, come lo è essere ebrei, essere poveri, essere neri, essere omosessuali, essere poeti, essere argentini, ecc. ecc. E’ chiaro che l’importante è ciò che facciamo delle nostre disgrazie.” Quindi, per lei, la poesia è un destino? O è una vocazione, nel senso che dava Hesse al termine: “La vera vocazione di ognuno è una sola, quella di arrivare a sé stesso. Finisca poeta o pazzo, profeta o delinquente, non è affar suo e in fin dei conti è indifferente. Affar suo è trovare il proprio destino e viverlo senza fratture dentro di sé.” Oppure è una necessità, quella necessità di cui parla Rilke nelle Lettere a un giovane poeta, che asserisce: “si domandi nell’ora più quieta della notte: devo scrivere?” e poi aggiunge: “Un’opera d’arte è buona se nasce da una necessità”. 

Qui convergono “vocazione”, “destino” e “necessità” e ogni altra parola capace di esprimere la nostra obbedienza alla voce che ci chiama. Ci chiama e ci impone di entrare in un mondo, quello della poesia, dove vengono meno le nostre certezze e tutto può franare da un momento all’altro, può rivelarci qualcosa di noi sepolto nei sotterranei della vita. Fa bene Rilke a insistere sul “dovere” a cui siamo sottoposti, perché si tratta di forze sovrumane a cui è impossibile opporsi, grandi massi di pietra in cui sono incise le tavole della legge poetica. Questa legge è mitica e insieme storica. Proviene dalla notte dei tempi ma prende vita nelle pulsazioni del contemporaneo. Custodisce un’eredità remota che si innesta nel respiro vivente della parola odierna, come un’origine continuamente fecondata dall’attimo presente. Il nostro dovere di poeti è mantenere fermo questo equilibrio tra l’antico e l’attuale: se la bilancia cade da una parte, c’è il rischio del Neoclassico; se cade dall’altra c’è il rischio del giornalismo.

Lei stesso asserisce che la parola poetica, prima di venire alla luce, attraversa “un cammino ad ostacoli, pieno di barriere, muraglie e fossati, un cammino dove la parola non può scorrere tranquilla come un torrente di campagna o una narrazione. No, la parola poetica non scorre e non discorre, la sua acqua trova continuamente l’ostacolo di una diga e in questo modo cresce in potenza e densità, preme contro la diga e si fa più profonda e verticale, sente che la caduta è imminente, sta per precipitare a valle con tutta l’attesa che ha accumulato, nutrito e custodito dentro di sé.” Perché tutto ciò?
Perché la parola poetica ha bisogno di questa lunga gestazione – che è anche la sua verità – e non può ridursi al pulviscolo delle frasi improvvisate, alla facile seduzione del colpo di fulmine. Deve percorrere, metro dopo metro, buio dopo buio, il suo intero tragitto, deve scrutare tutto ciò che incontra; deve fermarsi sulla soglia del baratro oppure correre a capofitto sulla soglia della minaccia. Non è lei che decide il traguardo. Il traguardo, se verrà raggiunto, sarà un filo di lana dove scorreranno gli eventi accaduti. Spezzando questo filo, si precipita dentro la pagina. Ma deve esserci tutto ciò che è stato visto, splendido o spaventoso, orribile o sublime. E deve risuonare nell’eco di una lontananza, di un potere arcano che ci spinge dove dobbiamo essere spinti. 

 

Che cosa significa verticalità in poesia? Recalcati paragona la parola poetica al taglio che imprimeva sulla tela Fontana, e alla parola psicoanalitica, nel senso che non si tratta di una parola consolatoria, ma di un urto, uno squarcio che apre a una nuova visione delle cose. Lei concorda?
Proprio così: uno squarcio che apre a una nuova visione delle cose. All’intelligenza di Fontana aggiungerei, tra i grandi del Novecento, l’arcaico di Burri, la solitudine di Schiele, la violenza di Pollock, il grido di Bacon, la distruzione di Kiefer, perché questo squarcio possa rivelare tutta la potenza drammatica della poesia.

Ma se l’interiorità ha tutto questo peso nella produzione poetica, come si concilia con il carattere pratico che la poesia aveva alle sue origini? Sappiamo tutti come la poesia servisse a tramandare la memoria storica, in tempi in cui l’alfabetizzazione non era frequente, grazie alla sua musicalità, e quindi alla capacità di rimanere impressa nella mente. Non solo, ma era anche veicolo di idee, al punto da contribuire alla formazione della coscienza sociale. Come irrompe, allora, un dato esteriore all’io lirico, qual è la società e il tempo in cui egli vive e agisce, nella creazione del verso? Secondo Lei oggi il Poeta ha l’obbligo di contribuire alla formazione di un’etica civile, o deve astenersi da ciò?
Su questo argomento Quasimodo scriveva: “La posizione del poeta non può essere passiva nella società; egli modifica il mondo. Le sue immagini forti, quelle create, battono sul cuore dell’uomo più della filosofia e della storia. La poesia si trasforma in etica, proprio per la sua resa di bellezza: la sua responsabilità è in diretto rapporto con la sua perfezione… Un poeta è tale quando non rinuncia alla sua presenza in una data terra, in un tempo esatto, definito politicamente.

“Tutto è politica” era uno slogan degli anni settanta e si è conservato tale e quale nei decenni, anche se sono venute meno le filosofie che lo sostenevano. “Tutto è politica” rimane uno slogan riduttivo. È come dire “tutto è amore”, “tutto è musica”, “tutto è psicologia”, definizioni vuote che non specificano nulla del loro oggetto. Diciamo piuttosto che alcune cose sono politiche, e sono più o meno quelle che riguardano il nostro voto, il governo, gli stipendi, gli scioperi, lo svolgersi quotidiano della vita sociale, con i suoi conflitti e le sue contrattazioni. Su tutto il resto la politica può fare ben poco, perché nonappartiene al nostro destino e alla nostra solitudine. “Tutto è politica” era davvero uno slogan. Non ci ho mai creduto allora e tantomeno ci credo adesso. Tutto ciò che viene definito “politico” è inessenziale. Riguarda la nostra superficie e non tocca i grandi temi che ci attraversano e ci sconvolgono: la morte, l’infanzia, la memoria, l’al di là, l’origine. Quanto alla funzione “pratica” della poesia, ho qualche dubbio che sia mai esistita: il “fare” contenuto nella parola greca non è certo il “pràttein” ma il “poièin”, ossia un “fare” che riguarda il rito, la cerimonia, la tradizione. In ogni caso, nel tempo che mi appartiene la poesia è la cosa meno pratica del mondo, ossia quella meno legata al denaro e ai beni materiali: essa modifica lo stato delle cose proprio quando non si propone di farlo, quando il suo canto tocca zone sotterranee, segrete e infernali della nostra vita. La poesia cosiddetta “civile” a cui accenna Quasimodo è quasi sempre retorica, astuta, televisiva, fatta per strappare l’applauso con la sua “bontà” esibita come un lasciapassare. Per fortuna Quasimodo stesso è andato ben oltre questa poetica. 

Parliamo di eresia. Quanto deve essere eretico un poeta? Scriveva Sciascia: “Voi avete visto che non è stata solo la Chiesa Cattolica ad avere paura dell’eresia. È stato anche il partito comunista dell’Urss ad aver paura dell’eresia, e c’è sempre nel potere che si costituisce in fanatismo questa paura dell’eresia. Allora ogni uomo, ognuno di noi, per essere libero, per essere fedele alla propria dignità, deve essere sempre un eretico.” Che ne pensa?
“Eretico” è un termine religioso – non per nulla molto caro a Pasolini – e come tale non mi appartiene. Il mutamento operato dalla poesia è dirompente e riguarda tutti i piani dell’essere: la vita interiore, la vita pubblica, il desiderio personale e il desiderio del mondo, con le sue forze cosmiche e totali. Sento che questa potenza trasformativa mi riguarda da vicino. Ma bisognerebbe trovare un termine che la esprima senza riferirsi a un dogma o a un comandamento.

In un’intervista che ha rilasciato, Lei ha operato una netta distinzione tra notte e tenebra: la notte si sposa con il silenzio, ed è feconda di verità e di albe, mentre la tenebra è “sterminata”, ossia senza fine, e dalla verità ci allontana. Noi stiamo attraversando tempi notturni o tempi tenebrosi, posto che comunque tutti riconoscono ai nostri tempi un certo oscurantismo?
Per la verità non vedo un particolare oscurantismo nei nostri tempi, che mi sembrano migliori degli anni dogmatici in cui sono cresciuto e rivelano una presenza insperata della poesia nell’anima del mondo. Certo, rispetto a quelli, sono tempi della sovrabbondanza e del caos pulviscolare: bisogna essere ancora più selettivi, aristocratici e impietosi verso ciò che è popolare. Sono tempi che richiedono severità e gerarchia. E questa gerarchia nessuna istituzione può imporla dall’esterno. Siamo noi, attraverso la poesia, che la fondiamo.

Scriveva Montale nelle Poesie disperse: “La poesia consiste, / nei suoi secoli d’oro, / nel dire sempre peggio / le stesse cose. Di qui l’onore e il pregio. / In tempi magri è un’epidemia, / chi non l’ha avuta l’avrà presto, ma / ognuno crede che la malattia / sia di lui solo e che all’infermeria / il posto per l’egregio sia il peggiore.” Allora non ha senso scrivere poesia, se teniamo conto di quello che scrive Montale?
Al di là dei suoi paradossi, Eugenio Montale ha scritto poesie fino all’ultimo giorno della sua vita. Quindi bisogna tenere conto di questa sua affermazione, certo, ma bisogna anche non tenerne conto. D’altra parte questi versi appartengono al secondo tempo della poesia montaliana. E c’è anche un primo tempo, sublime e ieratico, che ci impone di scrivere e di rendere testimonianza con il suo stesso sguardo fermo e lucidissimo.

Può, in un’epoca materialistica come questa, considerarsi una colpa lo scrivere poesia? Parlava la Pozzi di un “rimorso”: “Ti amo, poesia, almeno quanto me ne vergogno. E se è vero che si viene feriti solo da ciò che davvero si ama, allora sarai la mia freccia nel fianco: l’eterno rimorso di non essere compresa.” Quanto conta, per un poeta, essere compreso?
Belli questi versi di Antonia Pozzi, la maggiore poetessa italiana del primo Novecento, che impressionano ancora di più per l’età giovanissima in cui sono stati scritti. Bello anche il verbo “comprendere” che conclude la tua domanda. Cum-prehendere. questo verbo, con il suo “cum”, è ben più ricco del semplice “capire” e dice di un ingresso totale nell’opera di un poeta. In tal senso è importante essere compresi.

Scriveva la Bachmann: “E solo dopo aver provato quel dolore segreto possiamo sentire (in modo diverso) ogni esperienza, ed in particolare quella della verità. Quando giungiamo a questo stadio in cui il dolore diventa fertile, stato che è insieme chiaro e triste, noi diciamo, molto semplicemente, ma a ragione: mi si sono aperti gli occhi. E non lo diciamo perché abbiamo davvero percepito esteriormente un oggetto o un avvenimento, ma perché comprendiamo ciò che non possiamo vedere. E l’arte dovrebbe portare a questo: far sì che, in tal senso, i nostri occhi si aprano.” Che rapporto c’è tra arte e dolore? Lei ha scritto quel capolavoro che è “Il tema dell’addio”, scaturito dal dolore per la morte di sua moglie, Giovanna Sicari. Crede davvero che la morte vi abbia separati, o sua moglie continua a vivere nella “comunione dei vivi e dei morti”, di cui parla Raboni, e anche Lei in una sua poesia? Perché, se da un lato Lei ha scritto sull’Addio, dall’altro ha scritto anche sul “Ritorno”. Che visione ha del tempo, lineare o circolare? Si va avanti in una sola direzione, o si va avanti per poi tornare indietro?
L’avanti e l’indietro convergono in un punto infuocato e visionario: ciò che è accaduto continua ad accadere e ciò che accadrà appare di fronte a noi con la stessa forza di un ricordo amato e inestimabile. È vero dunque che addio e ritorno sono strettamente congiunti. Ciò che sembrava perduto riappare al nostro fianco. Ma ciò che ritroviamo nel ritorno può scomparire per sempre: e allora non c’è nessuna comunione dei vivi e dei morti, nessun contatto con le creature perdute, nessun dialogo con l’al di là. Resta solo la fredda solitudine di un tempo che è stato nostro e ora se ne è andato per sempre, muto e irraggiungibile. Questo è tragico. Ma è dovere della poesia testimoniarlo. In altri casi e in altri momenti – rari e fortunati – può accadere ciò che descrive con sapienza Ingeborg Bachmann, può succedere che il dolore diventi fertile e i nostri occhi si aprano, può avvenire questa rivelazione felice dove si apre un’altra visione del mondo perduto ed esso ritorna a noi in una nuova vicinanza, insperata e nostra. Dobbiamo accettare questa alternanza. Come scrive un poeta amato dalla Bachman. “devi saperti immergere, devi imparare, / un giorno è gioia e un altro giorno obbrobrio” (Gottfried Benn, Aprèslude).

Tra addio e ritorno c’è il sentimento dell’attesa, che addirittura precede la nostra nascita, nel senso che prima ancora di venire al mondo siamo attesi dalla madre che ci darà alla luce. E’ riduttivo, comunque, dire di essere attesi dai nostri genitori, più approfonditamente potremmo dire di essere attesi dalla vita, o addirittura dalla morte ancor prima di nascere. Le chiedo allora: la religione può realmente essere di aiuto per l’uomo nella risoluzione del mistero che avvolge la vita e la morte? E noi, svincolandoci da una visione religiosa e trascendente, cosa aspettiamo realmente nel corso della nostra vita? L’attesa di un ritorno è un sentimento che si lega di più alla senilità, o anche in età matura possiamo congetturare qualcosa di veramente nuovo, totalmente altro da noi, esattamente come una madre quando aspetta un figlio?     
L’attesa ci accompagna per tutta la vita, dalla nascita a oggi: aspettiamo l’incontro che avverrà tra poche ore in un bar con lo stesso batticuore e la stessa preparazione con cui abbiamo atteso il primo libro o il primo amore. E l’attesa – virtù infinita rimasta nel vaso di Pandora per tutti i mortali – non ha voluto salire all’Olimpo, è rimasta tra di noi per dare un senso alla nostra vita. L’attesa non riguarda solo il futuro ma anche ciò che abbiamo vissuto, che continuamente ritroviamo, plasmiamo, inventiamo, aspettando che si congiunga al nostro più vero essere e trasformi in destino lo scorrere dei giorni. Anch’io attendo che quel rigore sbagliato all’ultimo minuto nella finale studentesca al Parco Lambro trovi il suo profondo significato e si intrecci armoniosamente alla marea dei successi e degli errori. Attendere che passato e futuro convergano in un luogo poetico e trovino lì la parola, la giusta parola per esistere. Non c’è altro paradiso. Non ci è dato credere ai santi, a Gesù Cristo o a Maria Vergine. Non possiamo tradire le nostre verità per un premio di consolazione. Restiamo qui, sulla terra, in questa unica vita, in compagni dell’attesa e del nostro essere attesi, come suggerisci nella tua domanda: la vita e la morte ci attendono.

Lei ha creato dei laboratori poetici nelle carceri. Si è imbattuto in carcerati poeti? Ci sono alcuni intellettuali che rivendicano un carattere elitario della poesia: pensa che questo sia vero, cioè che oltre all’ispirazione, sia necessaria la conoscenza della tecnica per fare poesia?
Sì, mi sono imbattuto in alcuni detenuti che nel corso degli anni vissuti insieme a Opera hanno mostrato un vero talento poetico. Pochi, certo, ma ci sono stati. E d’altra parte anche fuori dal carcere questo talento è rarissimo, è una dote naturale che però deve nutrirsi di studio e di letture. Il migliore di questi detenuti, Vladimiro Cislaghi, è uscito nel 2006 in una collana che dirigevo per La Vita Felice e tuttora – fuori dal carcere – continua a scrivere versi di valore. Quanto al carattere “elitario” della poesia, sta di fatto che la poesia ha pochi lettori e pochi scrittori capaci di dedicarle la propria vita, anche perché è forse l’unica forma d’arte estranea al denaro e alla possibilità di farne un mestiere socialmente produttivo. Esige perciò una dedizione tutta speciale, una dedizione doppia: da una parte ascetica e solitaria  ma dall’altra attenta al contemporaneo, capace di cogliere ogni sfumatura della lingua attuale. E qui non parlo solo di “tecnica” – per tornare alla tua domanda – ma di un percorso umano integrale, un percorso di conoscenza testuale, storica ed esistenziale, capace di riconoscere un novenario o una sineddoche ma soprattutto capace di immergere le qualità specifiche del verso in un pensiero originale e in una nuova visione del mondo.

Lei ha tradotto Lucrezio. Che cos’è la traduzione? Opera un processo di transustanziazione, per cui il poeta tradotto si incarna, corpo e sangue, nella traduzione?
Direi di no. Una traduzione totalmente empatica assume il testo nel proprio mondo e dunque lo tradisce. Mi è capitato spesso in questi mesi – lavorando su I fiori del male di Baudelaire – di incontrare scritture di questo genere, dove vengono a confondersi l’autore tradotto e l’autore che traduce. Non parlerei dunque di “transustanziazione” nel senso cristiano del termine ma piuttosto in quello di Aristotele che nella sua Fisica accenna a un passaggio della materia da uno stato all’altro, mantenendo alcune caratteristiche e perdendone altre. Anche il passaggio da una lingua all’altra implica questo insieme di permanenza e metamorfosi. Quando invece si cerca di “incarnare, corpo e sangue, il poeta tradotto”, avviene sempre una fusione enfatica e fuorviante tra i due autori e le due lingue, una specie di assimilazione nel proprio stile.  No. Il traduttore non assimila, per nessuna ragione, ma piuttosto rappresenta la voce antica sul palcoscenico della voce attuale, sulla scena frequentata dal pubblico contemporaneo. Fa entrare la voce precedente in un gioco continuo e inventivo di spostamenti, sostituzioni, equivalenze, analogie, sotterranei legami, nel tentativo di ottenere una “corrispondenza” con la nuova lingua, piegandosi alle esigenze di quella antica, accogliendola nella propria ma lasciando trasparire il suo carattere originario.  

Cosa possono trovare di attuale, gli uomini di oggi, nella poesia di Lucrezio? Si può parlare di una sua modernità?
Lucrezio ci insegna l’esattezza e l’autonomia del giudizio, il quale non deve essere condizionato da quelle che lui chiama “superstizioni”, che sono le false credenze legate alla religione e tutti gli inganni di un sapere imposto dal luogo comune. Ci insegna la solitudine del giudizio, che può essere raggiunta attraverso la conoscenza profonda della natura e delle sue leggi, l’accettazione del tempo umano che ci è stato concesso, senza pretese di eternità. L’anima muore insieme al corpo e non ci sarà un’altra vita, dice Lucrezio, ed è anzi il pensiero di un premio futuro o di una punizione futura a generare i peggiori misfatti, come spiega la Natura stessa che ci parla e ci ammonisce alla fine del terzo libro.

Quanto conta il gioco in poesia? Il poeta, secondo lei, gioca con le parole? E il sogno?
Mi sono opposto fin da ragazzo a ogni associazione della poesia con il gioco, che ha sempre avuto il suo pubblico di sostenitori, da Aldo Palazzeschi alla Neo-avanguardia. Quando a scuola si leggeva il “lasciatemi divertire” del poeta fiorentino, venivo preso da un misto di rabbia e di sgomento. Come è possibile che la poesia si riduca a questo? Come è possibile che un’esperienza totale e invasiva – quale deve essere la parola poetica – venga confinata negli spazi effimeri del divertimento? Nulla è cambiato da allora. Puoi dunque immaginare la distanza che mi separa dal termine “gioco” – in qualunque sua accezione – quando viene riferito alla poesia. Quanto al sogno, la cosa si fa più interessante. Autori che mi hanno colpito – da Ovidio ad Apuleio, da Poe a De Nerval a Lautréamont a Schnitzler– hanno percorso i territori del sogno. Ma deve essere un sogno “fatto alla presenza della ragione”, come prescrive la massima antica, per evitare i facili giochi del surrealismo e delle parole in libertà.

Ornella Mallo

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