A spasso con le tartarughe
Quando Rosa Di Stefano mi ha offerto la possibilità di tenere una rubrica su questa rivista ho provato due sensazioni contrastanti. Mi sono sentito lusingato per la stima che questa offerta conteneva ma, al contempo, ho provato una fitta di dolore per la grande responsabilità che questo impegno porta con sé. Personalmente mi sono sempre trovato in difficoltà quando si è trattato di scrivere con una certa costanza, perché per me la scrittura è piacere, non dico svago, quello mai, ma di certo in nessun modo lavoro. Quindi costringermi a scrivere ogni quindici giorni un articolo nuovo su un tema diverso per me rappresenta una sfida, non tanto di scrittura, quanto di impegno. La sfida però, come si nota da ciò che state leggendo, ho deciso di accettarla per due ragioni principali. La stima che Rosa ha nei miei confronti è ampiamente ricambiata. Ammiro la sua energia vitale capace di tenerla ancorata ai
suoi impegni culturali in maniera robusta. L’altra ragione è di natura diversa. Quando ho deciso di accettare mi sono detto che se volevo tenere una rubrica dovevo darmi delle condizioni, dei confini entro cui muovermi sia sul piano tematico che stilistico. Riflettendo bene su quali potevano essere questi confini autoimposti ho capito che non potevano esserci. L’unico criterio che avrei potuto seguire per
riuscire a scrivere un pezzo ogni due settimane per la rubrica era lasciarmi libero di vagare ovunque avessi voglia di andare. Libertà, quindi, di muovermi verso territori tematici anche molto distanti tra di loro, seguendo solamente il mio gusto, la mia curiosità, i miei interessi.
Dopo aver chiarito questo aspetto, mi sono posto un altro quesito: che titolo dare alla rubrica?
Per rispondere alla domanda ho cacciato le mani dentro la mia vita, alla ricerca di qualcosa che rappresentasse bene sia me che lo spirito della rubrica. Per spiegarmi meglio devo partire da qualche elemento biografico. Sono nato sposato, nel senso che ho fatto tutto presto, matrimonio, figli, laurea, ritrovandomi adesso a cinquatasei anni con due figli adulti, belli e compiuti. Il più grande ha trentacinque anni e il più giovane ventinove. Entrambi vivono da più di un decennio a Parigi, città meravigliosa dove mia moglie Elvira ed io andiamo più volte l’anno per incontrare la prole. Tornando spesso nella capitale francese, non siamo più attratti dai luoghi più turistici. Preferiamo quindi lasciarci trasportare dalla nostra curiosità indolente tra le vie meno frequentate dal turismo da tre-giorni-e- poi-torno-a-casa. Non seguiamo nemmeno una mappa, giriamo senza meta seguendo odori, suoni, colori, storie, personaggi. Volgiamo lo sguardo un po’ ovunque e quando qualcosa attira la nostra attenzione in modo particolare, ci soffermiamo a osservare meglio, per cogliere i frutti imprevedibili. Ho scoperto con il tempo che questo tipo di attività – della quale parla anche il grande giornalista e viaggiatore Tiziano Terzani – ha un nome e perdippiù francese: flâneur. Questa bella parola, piacevole da pronunciare poiché tende a sciogliersi sotto la nostra lingua, è un termine diventato celebre grazie al poeta Charles Baudelaire.
Volendone dare una definizione precisa, il flâneur indica l’uomo o la donna (nel qual caso si dice flâneuse) che vaga oziosamente per le vie cittadine, senza fretta, provando emozioni nell’osservare il paesaggio e rimanendo aperto a ogni tipo d’incontro. Pur non esistendo una parola italiana che la possa tradurre
perfettamente, possiamo accontentarci della seguente locuzione elegante che rende bene l’idea: il flâneur è qualcuno che pratica l’arte di “andare a zonzo”. Baudelaire riteneva che l’artista dovesse immergersi nella metropoli e diventare, per usare le sue stesse parole, “un botanico del marciapiede”, al fine di darsi la possibilità di conoscere, in modo analitico, il tessuto urbano e sociale della città.
Ho trovato questa indicazione del poeta comoda come un calzino di lana in inverno e mi ci sono accomodato dentro senza pensarci due volte. Quindi posso dire di essere anch’io un flâneur.
E qui veniamo al titolo di questa rubrica.
Per descrivere al meglio l’indole senza fretta e senza meta precisa del flâneur, quest’ultimo è descritto solitamente come “uno che porta al guinzaglio delle tartarughe lungo le vie della città”. Immagine, questa, che non si può che amare per il suo contenuto sorprendente e surreale.
Ecco dunque la ragione di questo titolo. Perché nei prossimi mesi andrò in giro a spasso con le tartarughe, cercando temi, storie, sensazioni, argomenti, personaggi, concetti in piena libertà, e di quelli scriverò. Se tra queste pagine digitali noterai, caro lettore o cara lettrice, un carapace
caracollare per le vie di città reali e immaginarie, seguito da un uomo dallo sguardo sognante, non esitare a fermarti e a leggere. Spero che la tua curiosità ne sarà adeguatamente stimolata.
Buona passeggiata.