Il principio di scambio equivalente

Giovanna era la donna più bella di Licata, occhi verdi pericolosi come due lame affilate, pelle di alabastro, e seni generosi, carattere indomito ed imperioso, nata fiera e figlia della contessa Vincenzina.

Il magico fin dalla sua nascita la toccò da vicino, la curva delle conchiglie che aveva sulla culla, e gli spiriti della casa che la allietavano facendole suonare tra di loro, le sue sparizioni inspiegabili, e i suoi ritrovamenti che avevano dell’inspiegabile.

Giovanna ebbe sette figli, da Patrangelo, uomo laborioso e buono, diverso da lei che era acuta e affarista. Delle sue figlie femmine, ne ebbe tre, Pina la “mezzana” aveva il compito di osservare quante volte il pentolino che utilizzava per bollire il latte alla colazione ruotasse quando lei, girando la sedia e guardando al mare, dall’alto della vetrata della sua casa, dalla più antica collina urbana del paese, appoggiava la testa al tavolino e si invasava. Le rotazioni annotate diventavano numeri, che spediva la piccola Pina a giocare al lotto. Campò i figli durante la prima guerra mondiale con le sue abilità, riuscì a vincere talmente tanto al lotto in una sola volta che lo stato non riuscì a pagarla, lei ci rise fragorosamente su, poiché era unna donna di grande spirito, goliardica, adorava giocare a carte con il vicinato nel suo baglio sulla collina della piazza principale della città, amava la musica, ridere e cantare, e diede la sua fede d’oro in cambio di una di rame quando per finanziare le campagna militari lo stato chiese oro alle donne.

Giovanna non sbagliò mai sul destino dei suoi figli, e delle loro vite, e augurò un ingegno e un talento a tutti e sette, che puntualmente furono gli strumenti con cui ognuno di loro costruì la sua vita, li voleva lontani e felici, sopratutto i maschi, a cui augurò fortuna da Milano alla Francia, partirono Camillo e Francesco, e poi Nino, le tre femmine e Pino non vollero mai andare. Vincenzina era la più grande, a lei il mare diceva, sposò Angelino che aveva tre pescherecci. Gina la più piccola delle tre non amava svolgere le faccende di casa, la chiamava la ruffiana, eppure si trasformò molto quando la vita lo rese un’esigenza. Pina era la sua figlia preferita, la sua adepta, quella che trovava naturale ogni stranezza della madre, vincente e imperiosa, Pina fu l’unica che ebbe le sue stesse capacità, ma era di indole molto più generosa e non ebbe il suo acume, ma fu amatissima, la più amata.

Giovanna detestava il cattivo tempo, i disfattisti, e “u mortu m’enzu a casa”, era apotropaica per natura, la sua bellezza chiamava bellezza, la sua sicurezza confermata dall’assenso di tutto il paese, dalle donne che ammirate dalla sua bellezza e dal suo carisma volevano essere un po’ lei, e gli uomini che trattarono la figlia della contessa come un desiderio inarrivabile e sacralmente rispettato.

Giovanna era regina. La regina di Licata. Nel bello e nel cattivo tempo che aveva il potere di mutare, nell’abbondanza della generosità dei suoi natali, e nella carestia di una guerra che impoverì tutto e in special modo gli animi di tutti, tranne il suo, che aveva perso moltissimo, ma non tutto, e che era certa di potere ricostruire. Non c’era mai un problema che non seppe risolvere o obbligare qualcuno a risolverglielo.

“Comu diciti vui donna Giovanna”

Era la frase più a volte a lei omaggiata, da tutto il paese, sindaco compreso, che rimase allibito quando il figlio del maniscalco rapito dagli occhi della sua Vincenzina le buttò spavaldamente il fumo della sua inesperta sigaretta in faccia alla ragazza che non potè fare altro che intimidirsi e riparare nel negozio di scarpe storico di famiglia. Non ci pensò due volte Giovanna ad afferrare il coltello dalla tomaia su cui il marito lavorava , quello enorme, simile a un macete, quello che si usa per tagliare la pelle che sarebbe diventata calzatura. Afferrò il ragazzo per il collo con una delle sue possenti mani, e lo sollevò sul muro brandendo il coltello con l’altra e intimando che se si fosse avvicinato a sua figlia un’altra volta lo avrebbe trattato come materiale da tomaia. Il sindaco era anche un suo rifugiato, si perchè durante i bombardamenti, al suono delle sirene Giovanna come una regina “affacciava” sul baglio e mentre gli sguardi di tutti gli abitanti sospesi e attoniti, come chi aspetta un segnale divino prima della fine inesorabile, le chiedevano nel silenzio cosa dovessero fare, lei con fare certo, inarcando uno dei suoi cigli sul verde più bello dell’agrigentino e dello stesso smeraldo, faceva semplicemente un gesto con la mano che voleva dire “seguitemi” e scendendo le scale che isolavano il suo baglio come un piccolo mondo antico e una dimensione esente dal dolore, fino alla strada, attraversata la quale usciva dai suoi marmorei seni una chiave robusta e forte come le sue volontà. Apriva una grata su una roccia integrata nel tessuto urbano della città, e apriva il corridoio scavato a picconate dagli antichi che portava a uno stagnone ipogeo, largo e grande, scavato in maniera circolare, una stanza pensata per raccogliere le acque piovane, che diventa rifugio contro i bombardamenti che distruggevano corso Umberto, e che minacciavano la torre campanaria di Basile del municipio, ritrovo di tutti gli appuntamenti dei cittadini che si vedevano “sotto l’orologio”.

Mentre le bombe urlavano distruzione, gli abitanti impauriti e sparuti che Giovanna aveva radunato nello stanzone di roccia si scambiavano sguardi pieni di sgomento e terrore. Giovanna teneva in quella sua amena proprietà due settimanili, pieni di biscotti al latte, e pane fatto nel suo forno a legna per un’intera settimana, fiaschi di vino di produzione di suo padre che aveva le vigne a Sant’Oliva, e tre mandolini.

“Suonate”!

Disse imperiosa guardando con i suoi occhi da felide da combattimento gli unici tre uomini che avevano dimestichezza nello stimpellare i mandolini del suo baglio, e stupiti chiesero

“picchì Giovanna”?!

“Sunati, mangiati, e viviti… ciù forti di bummi, accussì i picciriddi un si scantunu”

Le obbedirono come se avessero una Dea davanti che imponeva la loro devozione. E così fù, un biscotto in bocca e Turi non faceva più caso al rumore delle bombe, le grida delle sirene aumentavano il lirismo degli squarciagola che con in mano i tre uomini con il mandolino ululavano, il vino si legittimava nei bicchieri delle brave donne che mai avrebbero osato in una condizione normale, e sopratutto davanti ai loro mariti. Vannina aveva smesso di piangere e con le guance ancora solcate dalle lacrime addentava un pezzo di pane tra le braccia forti di suo padre fornaio, e persino Agatina che non rideva mai, scoppiò a ridere quando vide il marito goffo e imbarazzato suonare e cantare in maniera ridicola, e con una lacrima nel contempo lo faceva eroe. E Vincenzina, Pina e Gina si sentivano al sicuro vicino a loro madre che conversava con Graziella di quando la figlia si sarebbe sposata in primavera.

Le bombe si cominciarono a sentire in lontananza ormai, il peggio sembrava stare passando, mentre il ronzio degli aerei che sembravano calabroni stanchi si dirigevano verso Falconara, fu allora che uno degli uomini con il mandolino in braccio si avvicina ad uno dei rifugiati che nel trambusto si era intrufolato al seguito di Giovanna con addosso uno scialle che lo copriva e lo rendeva ignoto agli altri, lo scoprirono e si rivelò un soldato nemico impaurito e disertore, appena diciotto anni di biondino ancora in cerca di madre e casa…

“T’ammazziamo”, urlò Lino prendendolo per la collottola.

“Bastardo”! Inveì Pino che diventò rosso di furore.

“Fermi”! Tuonò Giovanna facendo tremare i muri, “Voi non gli alzerete un dito”!

“Picchì Giovanna”?!

“Perchè mio figlio Camillo è fuori in guerra! E come io non voglio che gli venga torto un capello voi non toccherete questo ragazzo, una madre per una madre, un figlio per un figlio”!

Tutto si paralizzò e nessuno osò fiatare, solo il pianto di quel ragazzino vestito da soldato si sentiva singhiozzare, e risuonare tra quelle pareti di roccia che avevano fatto da baluardo, e ora da teatro di uno strazio sedato solo dall’amore di una madre, dal sentimento di una donna. Fuori era ormai silenzio, a uno a uno, uomini donne e bambini uscirono dall’ipogeo salutando e ringraziando Giovanna sulla soglia aperta dalla sua chiave ancora una volta, ad ogni saluto scuoteva la testa, come una regina che ricambiava la deferenza dei suoi sudditi, finchè non rimasero solo Giovanna e le sue tre figlie lì, con il ragazzo che aveva solo le lacrime come linguaggio. Giovanna non disse niente, dopo averlo trapassato severa con il suo sguardo, aprì il terzo cassetto di uno dei due settimanili, e diede al ragazzo una coperta, intimò alle figlie di andare ed un ultimo sguardo che sapeva di patto implicito sugellò la chiusura di una grata che sarebbe stata sicurezza per quel giovane che si sentiva perduto.

Passarono tre settimane, il giovane prigioniero nell’ipogeo sotto il baglio di Giovanna venne regolarmente nutrito, e quando la figlia della contessa decise che era il momento, gli diede un tascapane con dentro roba da mangiare, dell’acqua, dei soldi e i vestiti di suo figlio Camillo, dicendogli che la guerra era finita e adesso doveva tornare da su madre, e che quella notte gli avrebbe lasciato la grata aperta.

Passarono tre giorni, e Giovanna dopo aver dato uno sguardo dalla vetrata all’apice del suo baglio, fece le scale tre alla volta, attraversò il baglio con i suoi smeraldi pieni di lacrime, rifece le scale tre alla volta, a buttare le braccia al collo a Camillo che era tornato sano e salvo dalla guerra!

La contessa Giovanna io non la conobbi mai, se non da una fotografia/quadro su vetro innestata in una cappelliera liberty, certo anche dal quadro i suoi occhi erano ipnotici e fin da bambino subì il suo fascino. La conobbi dai racconti di Vincenzina, di Gina, e da Pina, mia nonna. Arrivai però a conoscere suo marito assai longevo, il mio bisnonno, Angelo, detto Patrangelo, perchè padre fu fortissimamente, e nonno adorato, sopratutto da me e mia madre Vittoria, gli unici due per cui usciva duecento lire, regalandocele e dicendoci “itivi accattari u gelatu niputi mia”. Quel privilegio a quattro anni mi costò le prime invidie delle mie cugine e lo sguardo complice di mia madre sapendo a cosa ero stato adepto. Sognai Giovanna solo una volta da poco più che maggiorenne che in sogno mi disse di non andare con i miei amici che mi invitarono ad una gita in macchina sulle Madonie, non andai, perchè fin da piccolo la nonna e le zie mi insegnarono a prendere i sogni come un monito, e non assistetti ad un incidente che si portò via uno di quegli amici.

Giovanna era Cancro, segno della madre, dell’abbraccio protettivo, e della magia. Giovanna era bellissima, e riuscì a comprendere il principio cardine che regge l’alchimia, il principio di scambio equivalente.

Tutti quelli che portano il nome Camillo nella mia famiglia, tornano sempre sani e salvi da ogni guerra e da tutte le loro battaglie, per quanto non siamo esenti dalle cicatrici.

A mia bisnonna Giovanna, che fu regina e valchiria, che trasmise il verde negli occhi di chi ho amato di più, e che salvò in tempi distantissimi due giovani ragazzi.

Marco Amato

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