Il laboratorio creativo delle parole

Tradurre è un atto d’amore, un gesto di pace. È un incontro silenzioso tra mondi, un attraversamento di vite, sogni, e linguaggi altrui per restituirli nella propria lingua di appartenenza. 

Se l’incomprensione genera distanza, scontro, la traduzione costruisce ponti: accoglie l’altro, ospita lo straniero.

Le lingue del mondo si cercano per dare senso all’esperienza umana, per ritrovare un linguaggio comune che sfida la torre di Babele in un abbraccio comune.  Chi traduce apre varchi tra parole sconosciute per condividere ciò che ci unisce: l’umano. Come scrive Primo Levi nell’ “Altrui mestiere” la traduzione è opera di civiltà “il traduttore è il solo che legga veramente un testo, lo legga in profondità, in tutte le sue pieghe, pesando e apprezzando ogni parola e ogni immagine, o magari scoprendone i vuoti e i falsi. Quando gli riesce di trovare, o anche di inventare, la soluzione di un nodo, si sente «sicut deus» […] Una divinità che nel laboratorio delle parole esprime tutte le sue arti. 

Nel salotto letterario di “Un tè con l’autore” Marina Di Leo, dialogando con Maurizio Guarneri, Rosa Di Stefano e Marisa Di Simone, ha condiviso il suo lavoro di traduttrice aprendoci le porte del suo laboratorio di parole.

Tradurre significa ricerca, essere curiosi. Come vivi la curiosità nei confronti del tuo lavoro e della vita?

La curiosità è la base del mio lavoro, trascorro molto tempo a guardare, a fare ricerche, a cercare di capire perché quella parola, quell’espressione è stata usata in quel contesto. Spesso ci sono parole che rimandano a usanze che non sono familiari per il pubblico italiano, quindi devo sforzarmi tanto di capire l’ambientazione. Noi traduttori siamo tuttologi perché non siamo specialisti di nulla, però sappiamo un po’ di tutto. Io ho fatto tantissimi lavori nella mia vita, proprio perché sono molto curiosa di cimentarmi con il nuovo. La curiosità è come una sfida, una sorta di tarlo che mi spinge continuamente a confrontarmi con le novità, a spiare, nel senso positivo del termine, le vite degli altri, a provare a mettermi dal punto di vista altrui. E questo credo sia proprio l’essenza principale del lavoro del traduttore. 

Raccontaci com’è una tua giornata tipo. Immaginiamo la tua scrivania, ma cosa succede davvero tra quelle ore di lavoro 

La mia giornata tipo comincia con un rituale per me irrinunciabile: la prima colazione al bar. Molto spesso è l’unico momento della giornata in cui esco di casa, in quel momento sono fuori nel mondo, parlo con qualcuno. È un rituale al quale rinuncio molto raramente. Questo appuntamento fuori dal mio studio, mi piace molto, è un incontro con il mio barista, con gli amici del quartiere, un modo per caricarmi di energia per poi rimanere concentrata ed in silenzio. Trascorrere tantissime ore in solitudine necessita una disciplina rigidissima. La mattina, prima di andare al bar, mi trucco, mi vesto, mi metto in assetto di lavoro e di relazione col mondo. Dopo la colazione rientro a casa, raggiungo la scrivania fuori da ogni sguardo tranne quello del mio gatto. Lavorare da soli comporta molta padronanza di sé perché sei responsabile di quello che fai, della gestione de tempi ma a quelli ci pensa il mio felino. Decide lui quando è il caso di fermarmi, fa una danza sulla tastiera del computer ed io capisco che devo fermarmi per un po’. 

E poi… ti capita che un problema linguistico ti insegua anche fuori dal lavoro? Magari per strada, al supermercato? 

Mi è successo tantissime volte, ore a scervellarmi per trovare la parola giusta o il giro di frase che fosse efficace e funzionale e poi chiacchierando con un amico, od occupandomi di altro improvvisamente si accendeva la lampadina. Ecco! Era questa la parola che cercavo, magari suggerita dal vicino di casa che ignaro della mia ricerca me la suggeriva. 

Bisogna essere sempre con le antenne vigili, per cogliere anche la parola detta per caso. 

Nel suo celebre saggio “Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione” Umberto Eco dice che è legittimo violare i principi della sinonimia e persino dell’esattezza del riferimento pur di produrre nel lettore lo stesso effetto che il testo originale intendeva produrre — Sei d’accordo?

La sinonimia assoluta non esiste, non c’è il sinonimo perfetto. Due parole che apparentemente sembrano intercambiabili in realtà non lo sono. L’obiettivo principale, come diceva Eco, almeno per una certa scuola di traduzione, è riuscire a riprodurre nel lettore l’effetto che lo scrittore, il saggista contava di produrre sul suo lettore originario. Questo significa che devi negoziare con il testo, cioè devi trovare un accomodamento per ottenere lo stesso risultato nella traduzione, magari utilizzando una frase che sintatticamente è diversa o una metafora o una frase idiomatica. E questo succede spessissimo, perché una frase idiomatica tradotta letteralmente spesso non ha nessun senso, oppure restituisce un effetto straniante quando nel testo originale era una frase familiare. Se io traduco letteralmente un proverbio che in italiano non ha la stessa diffusione sembra che stia usando una metafora ardita. Dunque per restituire il senso originario del testo io lo devo tradire cambiando la frase o usando un’altra frase idiomatica.

Può succedere che nel lavoro di traduzione t’imbatti in un problema di linguaggio politically correct?

Mi è capitato recentemente in una raccolta di racconti di Sylvain Tesson, “Atlante della luce dell’ombra”. In una di queste storie si narra di un ingegnere africano che sposa una donna nera con gli occhi azzurri. La parola in questione è “negra” ed io avevo deciso di mantenerla, contrariamente all’opinione del revisore. Non sono una persona che s’innamora delle sue scelte, amo il confronto ed ero convinta della scelta di non eliminare il termine “negra”. Il mio ragionamento si fondava sul contesto storico, il 1939 in Sudafrica, un momento storico in cui questa parola era di uso comune e non aveva la carica offensiva che noi lettori percepiamo adesso. Inoltre mi ero accorta di una sottigliezza che ritenevo fondamentale. Il titolo del racconto era “L’africana con gli occhi azzurri”, ed anche nel finale il narratore esterno usava il termine “africana”, mentre il narratore interno, cioè il marito della donna che raccontava in prima persona la sua storia d’amore, usava sempre il termine “negra”. Non era una scelta casuale, lo scrittore ha fatto usare la parola “negra” all’uomo che raccontava del suo amore per la moglie, considerando il contesto di riferimento. Nel 1939 era una consuetudine usare quella parola, la scelta traduttiva quindi doveva rispettare il racconto in prima persona dell’uomo che narrava la sua storia d’amore. Alla fine il mio ragionamento ha convinto il revisore ed il testo originario non è stato tradito.

“E dopo il lavoro con gli autori e con gli editori… arrivano i lettori. Ti è mai capitato di ricevere un messaggio, una reazione, che ti ha sorpresa?”

Generalmente ho ricevuto dei commenti positivi e complimenti che sono ovviamente molto piacevoli anche se ci si sente sempre un po’ truffatori. Noi traduttori abbiamo sempre la sindrome dell’impostore, ci sembra sempre che stiamo facendo qualcosa di scontato e che i complimenti non ce li meritiamo. Mi è capitato che mi abbiano rivolto anche qualche domanda. Uno dei primi libri di Simenon che ho tradotto s’intitola “La Chambre bleu”, letteralmente “La Camera blu”. In francese però non esiste una distinzione precisa come in italiano tra le varie tonalità del blu, quindi dal celeste al blu si utilizza sempre la parola blu. Ed allora io ho dovuto fare una scelta, anche un po’ arbitraria. Leggendo il romanzo a un certo punto la tappezzeria della stanza d’albergo viene paragonata al colore del cielo ed a quel punto ho scelto di tradurre il titolo con azzurro. Un lettore mi ha chiesto le ragioni della preferenza, perché lo sentiva un tradimento, mettere azzurro invece del blu. Una critica che mi gratificava del lavoro svolto nel restituirne le motivazioni, perché per me le parole sono sempre ricerca e creazione.

Ti è successo di avere amato molto un’opera che hai tradotto e di essere rimasta delusa nel conoscere il suo autore?

Quando lavoro su un autore o un’autrice finisco sempre per creare con loro un rapporto ideale, quasi intimo. Ho un piccolo rituale a cui tengo molto: ogni volta che inizio a tradurre un nuovo romanzo, cerco online una foto dello scrittore o della scrittrice, la stampo e la metto davanti alla scrivania.  Così, davanti al mio computer, ho una sorta di galleria improvvisata di ritratti stampati alla buona, una specie di album di famiglia con cui dialogare durante il lavoro. A volte mi ritrovo perfino a discutere con loro: “ma cosa volevi dire qui esattamente?”, borbotto tra me e me. Chissà forse in qualche modo una risposta mi arriva lo stesso. Di certo, però, mi costruisco sempre un’immagine mentale di questo interlocutore assente, una presenza che mi accompagna per tutto il processo di traduzione. 

Per quanto riguarda il passaggio dalla fantasia alla realtà, devo dire che gran parte degli autori che traduco non sono più in vita: questo rende impossibile ogni confronto diretto. Le poche volte in cui mi è capitato invece di tradurre autori viventi, sono stata sempre riluttante all’idea di incontrarli di persona: temo di restarne delusa. Spesso si trattava di autori che ammiravo molto, e il confronto con la realtà mi ha lasciata più perplessa che altro. Così alla fine preferisco evitare. In genere, scappo.

L’intelligenza artificiale secondo te è un aiuto o un sostituto per chi traduce? 

Al momento l’intelligenza artificiale per la traduzione letteraria non serve proprio a niente, per la traduzione tecnica probabilmente è diverso. Io però ho fatto qualche prova perché, anche se ci affidiamo ad un mondo in cui questa tecnologia diventa sempre più presente ed importante, è necessario conoscerla a fondo per capire se funziona. Al momento ritengo sia assolutamente inadeguata. 

Marisa Di Simone

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