“Movimenti” di Emanuela Mannino – la recensione

FARFALLE DI LUCE

“In caso di pericolo, l’oloturia si divide in due: / dà un sé in pasto al mondo, / e con l’altro fugge. // […] Morire quanto necessario, senza eccedere. / Ricrescere quanto occorre da ciò che si è salvato.” I versi appena citati sono stralciati dalla poesia “Autotomia” di Wislawa Szymborska, che tratta il tema della resilienza, tema eviscerato in tutti i suoi meandri anche da Mannino nella plaquette “Movimenti”: l’opera reca in copertina l’immagine di una crisalide-donna ancora avvolta nel suo bozzolo, pronta alla trasformazione in farfalla, dovunque e in ogni tempo figura dell’anima spirituale: animale inerme, non ha altra difesa che il volo e il mimetismo. Scrive Emanuela: “Il mio volo / è terra che batte / i piccoli segni / nell’alfabeto /delle cose abbandonate.”
La resilienza, o meglio la resistenza agli urti della vita, nella visione della Nostra, è prodromica di una metamorfosi, e la vita è movimento continuo, scaturigine di mutamento.
Leggiamo la lirica posta ad incipit dell’intera raccolta, intitolata “Preghiera”: “Il mio cuore è / una bara bianca: / ogni alba prega un fiore.”
L’immagine della bara presente nel secondo verso evoca la morte, a cui si contrappone l’alba del verso successivo, metafora del giorno che prende vita: ogni rinascita presuppone la morte del sé ferito, che trasmuta in un altro sé, la cui nuova integrità, tuttavia, non esclude, come nella poesia “Autotomia”, la parte di sé scissa, ma la include, accogliendola come necessaria alla sua ricostruzione. Quella che allora Mannino compie nella sua nuova silloge è la “Cura dell’ombra” di cui parla Hillman ne “La Valle del Fare Anima”: “La cura dell’Ombra comprende anche il riconoscimento di quello che abbiamo rimosso. E questo è un problema d’amore. Fino a che punto il nostro amore si estende alle parti di noi disturbate e rovinate, quelle ripugnanti e perverse? Quanta carità e compassione abbiamo per le nostre debolezze e le nostre nevrosi? Fino a che punto siamo in grado di costruire una società interiore sul principio dell’amore, accordando un posto a ogni sua parte?” Gli fa eco la poetessa nella lirica “Ho conosciuto una donna”: “Ho conosciuto una donna / sul bordo del mio abisso. / […] Mi manca tutto di lei / ma non è lei che mi manca. […] Lei / trema in me / petalo bianco e sangue d’anima. / […] Un giorno / porterò un fiore / al cimitero dei miei errori. / E pregherò. / Pregherò in segreto / la sua mano nella mia.” La donna della poesia è la donna che è stata la poetessa in passato, una donna non abiurata o rinnegata, ma accolta pietosamente, e perdonata per i suoi errori. Altrove scrive: “Diventa torrente di perdono / e muscolo di cielo. / Fidati di te. La tua spina è la tua rosa.” Per Hillman la conoscenza e l’accettazione delle proprie ombre consentono l’epifania di un sé coerente al proprio daimon, ossia alla propria vocazione interiore, e lo stesso è per Mannino, quando scrive: “Vesto brandelli di ombre / sotto un teatro di nuvole /non mi riparo dalla pioggia / piovo in me.” E aggiunge: “Da bambina giocavo a nascondino / con il sole. Mi ritrovavo sempre / dall’altro lato del vento.”
Il sole, quando non cade a perpendicolo sugli oggetti, genera ombre, e nello stesso tempo, in quanto foriero di luce, alle ombre si contrappone. Quello dei contrasti è un altro dei fili rossi che si dispiegano, lungo tutta la raccolta, per tenere insieme in un’unica collana le perle di cui si compone. La poetessa naviga in un mare di ossimori, riflettendo in sé la condizione umana universale. Non c’è verso, in tutta la silloge, da cui non emergano, contrapponendosi, tutte le emozioni che prova l’anima nell’arco della vita man mano che si imbatte negli eventi che la segnano, e la poesia ne riproduce la voce, come scrive il mistico poeta Hugo Mujica nei versi: “L’anima bisogna crearla, […] darle voce.[…] il poetico è ascoltarla, / fare del suo soffio un verbo, / di quel verbo un altro inizio, / un’altra unica creazione.”
Sicché vita e morte, odio e amore, paura e coraggio, movimento e immobilità, solitudine e ricerca affannosa dell’altro, noia ed euforia, annullamento di sé e rinascita sono eviscerati dalla Poetessa come parti di un mondo interiore che confliggendo generano infelicità, tormento. Il movimento dell’anima tende allora al raggiungimento di quell’ “istante / d’un assolo d’Eterno”, in cui è possibile essere avvolti da una “monofonia di luce”.
Intanto, però, tutti questi contrasti nella poesia di Mannino si annodano come fili di un tappeto persiano dai colori sgargianti. È di Cristina Campo l’accostamento del tappeto alla farfalla, accostamento quanto mai congeniale alla silloge di Mannino. Scriveva Campo: “Ci viene insegnato che nella lingua araba classica una radice comune lega tappeto e farfalla, e certo non soltanto per la fascinazione dei colori. Il tessere e l’annodare alludono di per sé alle vicende ordite per gli uomini da invisibili mani. E si sa come il vocabolo greco che indica l’attimo senza ritorno, da cogliere come un fiore miracoloso – Kairos – sia usato per definire un altro indefinibile: la momentanea, lampeggiante fissura tra l’ordito e la trama, in cui la spola penetra fulmineamente, come la lama mortale tra i due pezzi di un’armatura.” Le fa eco Mannino quando vede sé stessa volteggiare come una “farfalla libera / a primavera”, alla fine di un percorso di vita le cui stazioni sono tracciate dal fato. In “Bugia” leggiamo: “La soglia serba le orme del fato, /le ombre su per le scale / a casa, all’ombra di tutto.” Il destino ha ordito il suo passato, e serba per lei un futuro sconosciuto, e lo sgomento di fronte all’ignoto penetra in lei dolorosamente come una spada. Scrive infatti Mannino nella poesia “M’inchino”: “Sparigliano i ricordi abbandonati / sui guadi degli addii. / Ignoro la sorte / che vortica nell’abisso. / M’inchino al nulla / con una stella in mano / ed una spada sguainata nel petto.”; e nella poesia “Posa”: “Posa il coltello / con la lama che sbrandella / la candela dell’ultimo buio // pòsati nel precipizio in fondo / alla tua primavera // osati / e spera”. Il kairos di cui parla Campo, definito da quest’ultima “fiore miracoloso”, nella poetica di Mannino è un “giglio d’Eterno”, che non si sa dove sia: è in un “altrove” in cui si appianano i contrasti, in un “cielo” per raggiungere il quale l’Autrice ancora ignora la rotta, ma che ricerca senza posa per uscire dal buio che la avvolge: “Sto in quest’alba / a spettinare il giorno / i prati ordinati / i mormorii dell’acqua / per ritrovarti – rilievo d’un passo.”
Non viene mai meno la speranza a infondere coraggio nel cammino della poetessa verso la luce, minuziosamente descritto ed esaminato in tutti i suoi movimenti, condensati in cinque tappe, ossia le sezioni in cui si articola la plaquette: “Inquietudini”, “Distanze”, “Luce”, “Incontri”, “Forza”.
Si inizia da una dissezione del sé in tutte le sue minuscole parti, composte da ricordi ed emozioni, addii ed inizi: “Sul tagliere dei ricordi / sminuzzo le virgole e gli a capo. / Il mio dentro mi guarda: / non ha abbastanza occhi / per le vie di fuga. / Irroro il buio di silenzio. / Punto al germoglio / che sempre spaura / la morte.” Il silenzio è necessario per l’ascolto della propria anima, come pure lo è la solitudine. Scrive sempre la poetessa: “Ovunque / ed io sola qui. […] Ovunque schiamazzi di solitudine /ma il mio silenzio tace. E dice.” Vengono in mente le parole di Strindberg in “Solo “: “Questa è infine la solitudine: avvolgersi nelle sete dell’anima, farsi crisalide e attendere la metamorfosi, che non può mancare.” Gli fa eco la Poetessa nei versi: “Ho provato / cosa significhi essermi dentro / tutte le sillabe, gli accenti, i punti a capo, / le sospensioni / gli errori a perdere”; “domani prenderò i minuti / per farne un orologio tutto mio / ed il tempo mi dovrà aspettare / tempo d’un volo, ancora mio / con la primavera nel petto / ed un fiore bianco / sulla soglia del possibile.”
La rinascita, dunque, passa attraverso la strettoia della conoscenza del sé senza infingimenti, ma non ci si può conchiudere in sé stessi: è necessaria l’apertura all’altro, come annuncia la stessa poetessa nella sezione “Incontri”. In “Strada ferita” leggiamo: “Ma in due – senza uno – non si può. / Che di solitudine in fuga / non v’è uscita / e l’amore, l’amore / rimane / ennesima strada ferita.”
Occorre muoversi dalla percezione e dal riconoscimento della lontananza dell’altro, esaminata nella sezione “Distanze”, per annullarla e fondersi insieme, sprigionando così la luce che è dentro ognuno di noi.
La metamorfosi descritta da Mannino dà senso all’esistenza, perché la vita non può consistere in immobilità, ma in un movimento che ha la sua scaturigine proprio nell’amore che fa uscire da sé e dai bozzoli in cui ci si rinchiude. Un amore universale che lega gli uni agli altri, e gli uomini al mondo come seguaci di una vera e propria religione. Pensiamo all’etimo di quest’ultima parola, discendente da quel ‘religare’ latino che univa sacralmente gli uomini alle divinità. “Urge” essere un dio per sé stessi, ossia rispettare e custodire la propria integrità nella sua sacralità, e in questo riporre la propria fede: “Luce mi avvolge / sotto un cielo marchiato di fede. / Ho fede in me / e nel piccolo sasso / scampato al fango.”; occorre proseguire con l’apertura all’alterità, riconosciuta anch’essa nella sua dimensione sacrale, purché ci sia una corrispondenza. Scrive la poetessa infatti: “Ho fede in te / che mi attraversi nel vigile sonno. / Ci seppelliremo con il vento / tra gli umori della terra.”
Mannino è fortemente polemica nei confronti degli uomini che con la loro indifferenza l’hanno ferita: “Non mi ha chiesto di restare […] L’indifferenza / non è un posto da frequentare.” Non lesina critiche nei confronti di una società in cui “Ci si guarda / da uno spioncino / l’occhio deraglia / la mente sferraglia / solfati di ruggine / in cunicoli di guerra.”
A ben guardare, il canto della Nostra reca in sé la ferita primigenia della donna offesa e tarpata nel suo volo dall’atavica mentalità patriarcale, costretta, nel corso dei secoli, in una condizione di subalternità all’uomo, vittima del suo egoismo. “Donna […] apri la roccia / sboccia.”, scrive.
La sua voce si unisce, allora, al coro delle poetesse che l’hanno preceduta. Vengono in mente le parole di Armanda Guiducci: “Diventare donna è un nascere per strappi / reiterati, per lacerazioni / là, ai margini, / dove l’erba dirada.” Questo spiega l’insistenza di Mannino sul tema della maternità, in cui si incarna la femminilità per antonomasia, tema inizialmente sollevato dal confronto con la propria madre, della cui ambivalenza serba memoria e a cui dedica due poesie; e che poi si slarga fino a divenire conquista, da parte della Poetessa, della consapevolezza della capacità propria e di tutte le donne di diventare madri di sé stesse. Sulla propria madre scrive: “E tu, madre, quale madre hai potuto? / […] Io non mi perdo, madre, / quale madre, non ho potuto / senza madre in madre / madre di vita io / ogni posa senza posa / e pace in terra / a questa figlia di buona volontà.” Sulla possibilità di partorire una nuova sé ancora sconosciuta scrive: “Ti muovi in me, / ma non sei mai nata. / Ci vorrebbe una vita ancora / per averti tra le mie braccia. / Sono stata madre infinite volte. / Infinite volte ombra. / Eppure, /l’amore è il mio campo di grano.”
Fa da contraltare alla madre la figura del padre, amatissimo, il cui affetto verso la figlia è archetipico dell’amore puro, tanto agognato ma ancora inarrivato. Di lui scrive Mannino: “Mi mancano / i suoi versi incastonati nel cielo / il luccichio lieve della sera / che scioglieva la neve / dei giorni orfani di pace.” Opportuno l’accostamento di questi versi a quelli dedicati al padre dal poeta Alfonso Gatto: “Tu vedevi il mondo / nel plenilunio sporgere a quel cielo, / gli uomini incamminati verso l’alba.”
La silloge si conclude con un’apertura alla salvazione dell’uomo dal suo buio, possibile grazie al restare e al non fuggire dal cospetto di sé; restare con l’accoglimento delle proprie debolezze, delle proprie fragilità e dei propri errori, lasciando così fiorire le ombre. Emblematico l’ultimo verso: “Nessuno si salva mai / intero.”
Da un punto di vista formale, la Poetessa si serve di un linguaggio metaforico, e riveste sé stessa e i sentimenti che la attraversano, di immagini attinte dall’osservazione attenta della natura e dalla vita quotidiana: foglie, fiori, colori, – specialmente il bianco, simbolo di candore e di rinascita -, albe, notti, luna, sole, le quattro stagioni, il vento, il mare, il tavolo, la lampada simboleggiano di volta in volta ogni passo del suo cammino, ogni suo stato d’animo, permettendo di dare visibilità a ciò che per sua stessa natura è invisibile. Le parole sono scelte con accuratezza non solo per veicolare la profondità dei significati, ma anche per conferire ai versi musicalità, e il loro ritmo oscilla da un andamento estremamente serrato e concitato, lì dove si vuole rendere il mal de vivre discendente dalla frenesia dei giorni d’oggi (esempio: “Siamo vivi, siamo morti / tradimenti vivi / morti.”), alla distensione e al lirismo delle parti dedicate all’amore (esempio: “In questa nicchia / di respiri caldi / ansima il vento / che invano fugge / poi si posa.”)
La metamorfosi dell’ombroso bruco in una farfalla di Luce è possibile per Mannino grazie alla Poesia, che permette alla bellezza di innestarsi nella dolorante condizione umana, trasfigurandola. Quanto mai opportuno citare in conclusione a tal proposito le parole del pittore Braque, che sul valore dell’arte diceva: “L’arte è una ferita che diviene luce. […] Penso che l’opera d’arte finisca come una preghiera”.

Ornella Mallo

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