Licia Cardillo Di Prima una vita tra scrittura e vini
Scrivere è un esercizio continuo di metamorfosi
La scrittrice Licia Cardillo Di Prima apre il suo intervento prendendo confidenza con il pubblico, presentandosi a partire dalle sue radici. Racconta di essere nata e di vivere a Sambuca di Sicilia, un paese che nel 2016 ha ricevuto il prestigioso riconoscimento di Borgo più bello d’Italia, acquisendo da allora una rinnovata notorietà. Per lei Sambuca non è solo un luogo geografico, ma uno spazio dell’anima: un territorio affascinante, dal paesaggio articolato e suggestivo, segnato dalla presenza di un lago sulle cui rive sorge la cantina di famiglia, circondato da boschi e montagne dalle forme quasi zoomorfe, capaci di accendere l’immaginazione.


È una terra, spiega, permeata di bellezza, e i luoghi, ne è convinta, finiscono per plasmarci profondamente, come creta nelle mani del Padre Eterno. Entrare in relazione autentica con la bellezza significa lasciarsi trasformare interiormente, trovare gioia e pienezza. Non a caso, molti dei suoi romanzi sono ambientati proprio nel paesaggio sambucese, che ne attraversa le pagine come un respiro costante.

Nel suo racconto emerge poi un altro elemento fondativo della sua scrittura: il vino, che definisce “la poesia della terra”. La scrittrice ricorda la fatica e la dedizione necessarie per portare una bottiglia di vino sulla tavola e collega questa esperienza al significato originario della parola “poesia”, che dal greco poieō rimanda al fare, al creare. Il vino, come la poesia, nasce dall’amore, dalla creatività e da un dialogo profondo con la natura, che va ascoltata, rispettata e accompagnata nei suoi ritmi. È poesia anche perché affonda le sue radici nel mito, nella figura di Dioniso, simbolo di vitalità, trasformazione ed estasi. Per questo, afferma, il vino è a pieno titolo un’espressione culturale e poetica.

Il suo percorso umano e intellettuale passa anche dall’insegnamento: per trentuno anni è stata docente di Lettere, e il rapporto con i classici ha segnato in modo indelebile la sua formazione e la sua scrittura. Racconta come Dante e l’endecasillabo le risuonino ancora nella mente con la stessa insistenza di una nota musicale, come una goccia che batte senza sosta. Accanto ai grandi autori del passato, ricorda con particolare affetto i poeti del Novecento e, soprattutto, i contemporanei che ha avuto la fortuna di conoscere personalmente e di recensire: poeti e drammaturghi, molti dei quali siciliani, che oggi continuano ad abitare la sua memoria e il suo immaginario.
Interrogata sul ruolo della poesia nel mondo contemporaneo, segnato da guerre, crisi ambientali e perdita di sensibilità, la scrittrice risponde senza esitazioni. Ricorda le parole di un poeta a lei caro, Paolo Messina: se si spegne la poesia, si spegne la luce del mondo, perché si spegne la parola. E la parola è comunicazione, relazione, comprensione reciproca. Per questo il ruolo del poeta, dello scrittore, dell’intellettuale è oggi più che mai indispensabile: essere paladino della dignità umana, della giustizia, interprete dei bisogni profondi della società, guida verso la compassione, il perdono, l’amore.
Scrivere, spiega, è anche un esercizio continuo di metamorfosi: significa spogliarsi delle proprie identità per entrare in quelle altrui. Quando costruisce un personaggio, anche lontano nel tempo, cerca di abitare il suo pensiero, di guardare il mondo attraverso i suoi occhi. Questo allenamento all’empatia non riguarda solo lo scrittore, ma anche il lettore che attraverso la letteratura può liberarsi dai propri pregiudizi e vivere le vite degli altri. La parola, in questo senso, spiritualizza la realtà: se il Verbo si è fatto carne, chi scrive compie il percorso inverso, trasformando la carne in verbo.

Licia Cardillo Di Prima riconosce che in ogni sua opera c’è sempre qualcosa di sé, anche quando si nasconde dietro i personaggi. Le storie degli altri vengono vissute come proprie, filtrate, trasformate, fino a diventare parte integrante della sua identità narrativa. Scrivere significa anche “rubare” identità reali, persone conosciute, frammenti di vita, per farli diventare personaggi. E l’obiettivo, confessa, è che chi legge possa ritrovare almeno un frammento di sé in quelle pagine.
Ripercorrendo la sua produzione, ricorda il primo libro pubblicato, “Fiori di aloe”, una raccolta di racconti in gran parte autobiografici, seguiti poi dal suo primo romanzo storico, “Il Giacobino della Sambuca”, nato dalla scoperta casuale del nome di un giovane concittadino morto durante la rivoluzione napoletana. Da lì sono seguiti altri romanzi storici ambientati tra il Cinquecento e il Settecento, lavori di ricerca e saggi che intrecciano letteratura, storia e dialogo immaginario tra grandi figure del passato.
Alla domanda finale su cosa rappresenti per lei la scrittura, risponde con una definizione limpida: “scrivere è stare in compagnia di molti fantasmi creativi”. Non si è mai sentita sola, perché ha sempre dialogato con personaggi sparsi nel tempo, dal Cinquecento ai giorni nostri. La solitudine, confessa, l’ha avvertita solo quando ha smesso di scrivere.
Scrivere, conclude, è anche un modo per non morire. Lasciare qualcosa di scritto significa aspirare all’immortalità: è questa, forse, la spinta più profonda che muove ogni artista.
Marisa Di Simone