Soliloquio di Mirella Corsaro – La recensione

Già il titolo della silloge poetica  Soliloquio rivela il desiderio dell’autrice di parlare quasi sussurrando con il suo alter ego e i versi sembrano scritti in un silenzio che è sigillo di una voce solitaria e segreta, testimonianza di accoglienza e di ascolto.

Le parole erompono nella struttura della poesia  accurate nella scelta lessicale, frutto di un ripiegamento dell’autrice su se stessa e di  una meditazione sugli eterni temi dell’amore, della morte, della fugacità del tempo, della solitudine esistenziale dell’uomo, in cui aleggiano reminiscenze ed affetti lontani .

L’elemento memoriale si snoda in una carrellata di flash sfumati che emergono ora in una Corrispondenza tra oggetti e sensazioni « …e c’è il suo odore nelle cose che ha vissuto …», ora proiettati sullo sfondo di una natura complice di variegati stati d’animo «…ogni sera brividi di gioia e di dolore ondeggiano quando le ombre si allungano e la vita s’accorcia  …» o ancora nella rievocazione sottile della fugacità del tempo e delle avventure del proprio io «…il tempo ha ammanettato l’incoscienza e piegato il mio capo…»; « …amerò / l’immagine riflessa nello specchio/ non più rassicurante/ che parla a me di me / com’ero, come sono?  »

Il ricordo e la quotidianità dell’esistenza  s’intrecciano  con l’originalità di un dettato poetico che nasce da una sensibilità non comune nell’ascoltare l’invisibile e nello scandagliare il proprio animo.  Ed ecco allora i versi pregnanti della presenza dei morti, evocati  tramite oggetti che li ricordano come gli occhiali del padre  «dietro cui i suoi occhi parlavano » cui segue l’amara constatazione che  « ora non servono più ». E il  dubbio ossessivo che lacera  Realtà con la domanda « che ne è / della soffice carne / amata/ che posa e riposa / in umida ombra/ remota? » sembra essere spazzato via dalla fede che si connota come « convalescente tenerezza del guarire/ in un dolce pianger di preci » e inarca un sottile filo tra cielo e terra  restituendoci il contatto con i nostri cari.

Piuttosto che la morte, però,  definita « condanna senza appello » costituisce motivo di sgomento per l’autrice ,la vita, definita « ponte tra il nascere e il morire », segnata da dubbi, dolore,  incertezze, inquietudini,  «dono fragile », destinato inesorabilmente ad esaurirsi, producendone un ultimo, inevitabile da tramandare « come estremo retaggio a chi abbiamo donato la vita » .

La visione che emerge da un’analisi profonda delle liriche è una concezione pessimistica della vita in cui è ravvisabile la matrice di formazione classica dell’autrice enucleabile in echi foscoliani,   pascoliani,  boudelairiani, che costellano tutta la sua produzione.

Tra le maglie di tale scrittura, intrisa di immagini pessimistiche, fanno capolino però

 immagini di speranza connotate da policromici paesaggi e giochi di luce. E’ il caso dell’emigrante che parte alla ricerca di nuovi orizzonti, carico di amarezza ed ansia per ciò che lascia, ma che nasconde un’occulta felicità perché  proiettato verso un  futuro migliore. Sembra di vederlo in un cantuccio di uno scompartimento di seconda classe, pensieroso ma con un guizzo di speranza che illumina il suo sguardo  nel buio dell’ « azzurra sera »  durante la  corsa sfrecciante del treno. A tenergli compagnia solo i bagliori argentei dell’algida luna che, quasi antropomorfizzata , non si rassegna a tale perdita e insegue lui che fugge « dall’orfano borgo tradito »  in contrasto con un’umanità   che  ha il tepore di un tetto ad accoglierla  «… ognuno ha una casa a quest’ora ». La stanchezza avrà però  il sopravvento su « questa sonnambula veglia »  e presto la luna demorderà « come cagna dietro al galoppar del carro »  e cadrà tra le braccia di Morfeo. Il paesaggio si trasforma  avvolto dal buio «e finalmente sarà   addio »  .

E tutto di matrice oraziana sembra l’invito a vivere oltre il dolore, le inquietudini, le incertezze «….vivi dall’esterno e dall’eterno/ divertita la tua vita e le tue paure » godendo dei giorni e delle notti che  si alternano con ritmo sempre uguale e delle stagioni con i colori e le atmosfere che le caratterizzano. In particolare,   nel variegato quadretto di prorompente luminosità della lirica  Abbaglio, si enuclea  una preferenza dell’io – narrante per la stagione estiva   con il sole accecante che abbaglia il giorno « il rosso acceso/ lucido/ dei giochi d’estate ed il giallo giorno/ Abbaglio/ troppo giallo da anteporre al sonno e troppo poco odiato perché più non mi importi». Nel ritmo cadenzato, ricco di pause dei versi si coglie, tout court, la concezione che l’autrice ha della poesia e dell’intellettuale definito  colui che produce versi «rapito dall’incalzare dei ricordi»e che capta e coglie nell’universo « sfumature spennellate e sfaccettate/ di spiragli di sospiri ». E  la musa della poesia dispensa « aforismi  »e poesia appunto « nelle notti tempestose e solitarie».Ne viene fuori una parola essenziale, pregnante, sinestetica, in versi in cui l’autrice affida ai significanti il compito di dilatare all’infinito i significati e  immagini che sembrano di tocco impressionistico come in  «sbuffi di nubi sfilacciate»  o in « sotto ali di sangue e di sogni ». Si può senz’altro affermare che la musa ispiratrice, arrivata tardivamente nella vita dell’autrice, le è entrata nel cuore illuminandole un cammino di conoscenza, consapevolezza ed ascolto, e ,  per dirla con Mirella Corsaro, il tempo« dato, negato» sarà veramente rapace  solo quando « tacerà/ la poesia ».    

Mariza Rusignuolo

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