La verità è moneta perdente di Beatrice Monroy

recensione di Mariza Rusignuolo

Se dovessi definire il romanzo di Beatrice Monroy lo definirei un prisma dalle mille sfaccettature,  per il contenuto e per l’impianto narrativo. Palermo svetta dalle sue pagine in tutta la sua grandezza e in tutte le sue miserie. Una Palermo dove emergono, di striscio, le bellezze paesaggistiche, il profumo di zagara ma anche le storture sociali e politiche,  una città  che attraversa tutta la sua vita con dei ricordi indelebili e amari. Una Palermo che risuona di bombe, di stragi, di connivenze,  di responsabilità occulte e insabbiate  e in cui, a distanza di tanti anni,  non si è fatta luce su tante tragedie, su tante uccisioni e la verità rimane moneta perdente ovvero, a detta dell’autrice, “la verità non esiste, nel grande paese della paura”, “i potenti sanno ogni cosa ma si tratta di un mondo a cui non potrai mai accedere”.

 L’autrice sfoglia le pagine del tempo partendo dagli anni della strage del giudice Falcone  e,  nel ricordo di quella strage,  le date che si susseguono segnano  la storia di Palermo  e la sua storia personale, una macrostoria che corre parallela con la sua microstoria. L’autrice si abbandona alla contemplazione memoriale, al richiamo dei ricordi personali e della vita della città, una città amata, vissuta, sofferta.  Il suo è un romanzo di Palermo ma anche il romanzo della sua vita narrato in un connubio indissolubile e avvincente ma è anche il romanzo dei silenzi, di lunghi silenzi che  attanagliano, penetrano, sono resistenza al dolore. Palermo è una città dove si diventa “portatori di silenzio”, dove si impara il “silenzio della paura”. E La parola silenzio  che connota tanti romanzi dell’autrice, invade numerose pagine del romanzo  e sembra echeggiarvi  l’affermazione di Marguerite Duras che nel “tacere è urlare senza rumore”. Ancora una volta nel testo, custodi della memoria e del silenzio sono le donne. La narrazione, infatti,  si dilata e l’io narrante  si trasforma in noi,  lo sguardo è quello delle donne che, attraverso la parola e l’azione che si esplicita nell’impegno quotidiano antimafia,   si riscattano dalla loro posizione di subalternità patriarcale  e dal loro silenzio. Beatrice dà voce a tutte quelle donne che non l’hanno avuta e  il silenzio diventa, nel testo,  metafora di resistenza. La narrazione viene condotta al  plurale, l’io si moltiplica in tante noi con lo sguardo rivolto a Palermo in un continuo andirivieni  tra passato e presente. 

Tra le pagine scorrono, come in un film, le storie di tante vittime della mafia, magistrati, poliziotti,  imprenditori che hanno sacrificato la loro vita in difesa dello Stato,  Rocco Chinnici, Libero Grassi, Peppino Impastato, Padre Puglisi, i giudici Falcone e Borsellino e c’è anche il piccolo Di Matteo di cui l’autrice non vuole nemmeno parlare.  In  questi tragici eventi si incuneano sprazzi di vita da lei vissuta,  da bambina ad adolescente  a donna che, negli anni Settanta, come tanti giovani della sua generazione, volevano cambiare il mondo,  agli anni più recenti segnati  da dolori civili e personali. Palermo c’è tutta ma ci siamo anche noi tutti con le nostre illusioni, con la nostra caparbietà e con le nostra “idea folle che la mafia si possa  combattere”. Ad inizio di ogni storia un commento implacabile, amaro che sa di sentenza “…E noi viviamo”.

Palermo c’è tutta con i giornalisti che hanno combattuto la mafia, Mauro De Mauro, rapito dalla mafia e scomparso nel nulla,  Giuliana Saladino, giornalista e scrittrice, punto di riferimento  del “comitato delle lenzuola” istituito da Marta Cimino,  rivoluzione  silenziosa  ma molto efficace contro la mafia che le donne attuarono stendendo lenzuola bianche sui balconi con scritte come  “ No alla mafia” o  “Palermo chiede giustizia”.  

Palermo c’è tutta e nel  ricordo della città e di queste vite distrutte, cancellate,  le vie in cui sono vissute le vittime, i luoghi  in cui hanno perso la vita, topograficamente individuabili, rispecchiano una sacralità evocativa e sembrano partecipare,  animisticamente al dolore.  La scrittura allora diventa iconografica, scenografica,  intrisa di lirismo,  complice una natura, a tratti,  enfatizzata. Come quando l’autrice avvolge di lirismo, per smorzarne il dolore , l’atmosfera in cui avverrà la tragedia che si consumerà a maggio, in autostrada, dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo e che ucciderà il giudice Falcone, la moglie e la sua scorta, trasformando il boato assordante in   quell’ “ombra d’urto che accarezza ogni cosa, e sussurra ai sassi, ai fiori gialli, alle coppie di innamorati , ai gabbiani ….”  O come quando descrive tragedie forse più silenziose ma non meno dolorose come quella  che si consuma a Ballarò, della tratta delle ragazze algerine.  Per alleggerire  la narrazione, Beatrice  parla  di un ficus magnolia “con zampe di dinosauro che ascolta i sussurri comporre storie”, e lo antropomorfizza “l’albero ascolta e smuove le foglie con un suono dolce”. E favolistico/ lirico è il modo in cui affronta il problema ecologico ne “Il sacchetto di plastica” in cui l’autrice  evidenzia la distruzione che un sacchetto di plastica, estratto dal ventre di una tartaruga, può provocare all’ambiente.                                             Nei racconti di Beatrice  si coglie  una raffinatezza, un non detto per pudore, una profondità di sensazioni ed emozioni che coinvolge e in cui si  compenetra il lettore. 

Chi legge ha l’ansia di andare avanti, è come se leggesse il romanzo di una città,  di una generazione, di una vita, in cui i significanti si dilatano in significati etici ed estetici. Accurati e puntuali i riferimenti sui fenomeni storico- sociali raccontati con uno stile personalissimo che evidenzia tutte le prerogative elencate da Italo Calvino nelle sue “Lezioni americane” cioè leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità.  Palermo nel testo c’è tutta,  sfaccettata nelle sue molteplici realtà,  in quella del dopoguerra , in quella della instabilità provocata dalle stragi, in quella dei morti ammazzati, in quella del  Sessantotto, in quella del degrado delle strade e dei palazzi e delle biblioteche in stato di abbandono. 

Ciò  che attrae  è l’architettura e la trama della narrazione che richiama in mente la Storia di Elsa Morante. Anche lì  una storia individuale che cammina parallela e s’intreccia  con la grande Storia. Qui però la storia è quella della Sicilia e, in particolare di Palermo. Una storia con la S maiuscola, quella degli anni tragici che si susseguono mutando uomini e cose e quella personale in cui gli anni che trascorrono mutano  la persona, la maturano,  la trasformano.

Non basta sottolineare ciò che si racconta  ma come si racconta.  Beatrice Monroy si rivela nel testo  un’artista del narrare  perché la narrazione ha il sapore della testimonianza e, come lei stessa afferma,bisogna smettere di narrare nell’universo degli altri, bisogna narrare per noi, per ritrovare le nostre tracce.”

 C’è, infatti, tra le righe  una partecipazione, un ritmo emotivo  che non consente di interrompere la lettura  perché, come dice Sandra  Petrignani  “La scrittrice abita qui”, abita le sue pagine,  sta dentro le storie che racconta e ne vive la geografia.

la narrazione è un continuo  stratificarsi di luci ed ombre  che piovono sulla città, di contrasti accecanti, irrisolti,  tra bene e male. Ed ecco le pagine in cui si racconta  della “notte dei mille racconti”, evento ideato dall’autrice, che ha avuto uno straordinario impatto  sulla città, e della sua libreria,  Libr’aria, luogo di incontri culturali e di scambio di idee,  cui fa da contraltare l’ombra del pizzo. Il testo si arricchisce anche di pagine storiche come quella sull’Inquisizione spagnola che mandò al rogo donne e uomini tacciati di stregoneria e quella dedicata al viceré Caracciolo che pose fine a questa mattanza nel 1782.

La scrittura  si sostanzia di un caleidoscopio di riflessioni e commenti che  rendono accattivante e coinvolgente l’atmosfera. L’autrice destruttura, infatti, l’impianto narrativo tradizionale in cui le sequenze sono cronologicamente ordinate, operando uno scarto tra fabula ed intreccio e inserendo flash back memoriali, dialoghi serrati,  pagine di cronaca e storia. La narrazione, inoltre, procede a quadri, con una tecnica quasi cinematografica, in cui le varie sequenze narrative sono combinate sapientemente con una successione di storie  che si rivelano visibilmente interconnesse. Ciò che attrae il lettore, inoltre, è il sapiente uso che della lingua fa la scrittrice  adottando  ciò che Tolkien definisce  il “vizio segreto” di un buon narratore e che consiste nella scelta oculata di suoni e ritmo ricavati  anche  attraverso una scelta di lessemi e di modi di dire siciliani, nell’uso cadenzato di figure retoriche come ossimori, anafore, anacoluti che conferiscono ulteriore  musicalità, rendendo ogni pagina fruibile e piana per fluidità e ritmo.  Dalle pagine traspaiono le sue sensazioni, il suo sentire ma anche  il suo amore per le storie,  per la mitologia, per il teatro. Le immagini dei luoghi della “sua” città si sovrappongono, si intersecano, creando un tempo fatto di remote memorie e ogni  luogo, investito della sua carica emotiva, si trasforma in simbolo. Il testo è dunque il sismografo del suo sentire e della sua visione del mondo in cui  tragedie, dolore, suoni, colori della sua Palermo  prendono  forma e la geografia della sua città si mescola alla sua  geografia privata fatta di “Brandelli di vita” intrisi  di   rabbia, delusioni, emozioni  ma anche di gioie e di piccole vittorie,  visionaria, a ben guardare,  di una Palermo in cui  i luoghi narrati non sono luoghi di sangue, di morti ammazzati, di degrado, di abbandono ma  luoghi dell’anima. Questi ultimi,  sopravvivono,  nonostante tutto, nella memoria,  in fughe del cuore, nella loro bellezza,  come luoghi in cui serpeggia un afflato di speranza  per essere narrati  con quel lirismo che le è congeniale o, per dirla con Pessoa con la sua “poetica di sensazioni” .

 Beatrice usa la parola, la bella parola icastica ed essenziale che affascina e consola , come terapia della sopravvivenza e della speranza.  La sua è una parola che si carica di un significato semantico profondo, autentico, una parola  che sa farsi canto ed elegia, carme civile e meditazione spregiudicata che attraversa il tempo e lo spazio del suo vissuto . E’ una parola che ha trovato, come lei stessa afferma nel testo,  “un passaggio tra le macerie” simile a “quei gigli bianchi che spuntano dolci e improvvisi  tra i cumuli d’immondizia”, una parola che  illumina gli eventi narrati  con strategie sinestetiche ed immersive  e con la compresenza e contemporaneità  di tecniche narrative diverse, alla maniera di Milan Kundera.

Importante la lettura personale del libro  perché è un percorso proustiano, la storia dell’io narrante che, come sottolinea Gonzalo Alvares, vuole offrire all’io lettore  un dedalo di “impressioni, sensazioni, emozioni, suggestioni, ricordi”

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