Intervista a cura di Mariza Rusignuolo a Licia Cardillo Di Prima

sulla silloge poetica “Le vie dei canti”

  1.  Licia come è nata l’ispirazione di questo prezioso testo “Le vie dei canti”? Ce lo vuoi raccontare? 

 R. Spesso, chi scrive inizia con la poesia perché è aiutato e obbligato da un ritmo, da un elemento di canto e di incanto, di ripetizione, che rende tutto più facile. Così sostiene Marguerite Yourcenar. Io, invece, ho iniziato con una pièce teatrale cui sono seguiti racconti, romanzi, anche storici, saggi e cahiers di viaggio. Ho composto poesie nel momento in cui ho avvertito una forte spinta, il bisogno di incanalare nella parola una suggestione. Questa breve raccolta contiene poesie che appartengono a tempi diversi accanto ad altre recenti composte in seguito alla scomparsa di mio marito. Dopo sei mesi di inattività, durante i quali mi ero chiusa in una sorta di bolla, ho ripreso a scrivere e, attraverso la parola poetica, il dolore si è mutato in gioia, a testimoniare che l’amore non si esaurisce con la perdita, ma continua ad abitare i pensieri, i sentimenti, la vita di chi rimane.

Il titolo l’ho ripreso da un libro di Bruce Chatwin, esperto di miti aborigeni sulla creazione che narrano di leggendarie creature le quali, al Tempo del Sogno, percorsero il continente australiano, cantando il nome di ogni cosa in cui si imbattevano – uccelli, animali, piante – e con il loro canto diedero esistenza al mondo. Secondo l’antropologo, l’Australia si poteva leggere come uno spartito; non c’era roccia o ruscello che non potesse essere cantato e che non fosse stato cantato. Il canto faceva venire fuori in fretta ogni cosa. 

Anche il poeta, in fondo, non fa che cantare vibrazioni, emozioni, frammenti di vita che, se non trovassero sbocco nella parola, si perderebbero. 

 2) Nelle tue liriche c’è un’inedita compresenza di tematiche esistenziali, sociali, antropologiche cui fa da cornice il mito, il paesaggio, la storia di Sambuca. Quanto questo splendido borgo ha influito sulla tua ispirazione poetico – letteraria? 

R. Il borgo, la sua storia, il mito, il paesaggio, sono stati al centro dei miei interessi e dei miei libri. Linfa per la mia creatività. È stato mio marito, a rivelarmi la bellezza del paesaggio sambucese. Lui era un nomade, esperto di piante e di animali, amava avventurarsi nei boschi, stare a contatto con la natura. A lui devo il mio rapporto simbiotico con tutto ciò che mi circonda e la scoperta che la terra nella quale viviamo ci manda dei segni, ci modella come creta nelle mani del Padreterno e ci fa più umani. Il paesaggio, infatti, risponde al nostro bisogno di bellezza, “la trappola di cui Dio si serve per indirizzarci verso il bene”. Così scriveva Simone Veil. E io dalla bellezza dei luoghi mi sono lasciata catturare.

3) Il vino, questo prezioso nettare, è stato cantato dai più grandi poeti nel corso dei secoli, dai poeti greci e latini a Platone, a Dante, a Hemingway, a Shakespeare. In alcuni tuoi versi, sembra che non è il vino ad essere oggetto del canto ma piuttosto che la poesia sia insita nel vino. Cosa ci sai dire al riguardo? 

R. Il vino è poesia e, a tal proposito, mi piace riprendere il mito che ne attribuisce la nascita a Dioniso, il dio che non conosceva il dolore, nato dalla coscia di Zeus, dove era stato cucito, dopo essere stato strappato dal ventre della madre, Semele, incenerita dallo splendore di Zeus.  Un mito che racconta la morte di Ampelo, ucciso da un toro. Accorre il dio e, a vedere il corpo straziato del giovane amato, versa sulle ferite lacrime e ambrosia. Ed ecco il prodigio: la Moira, impietosita, avvolge a ritroso lo stame della vita e il corpo germoglia: la pelle diventa corteccia, dal ventre e dal dorso sbuca il legno contorto, le braccia si mutano in tralci, le dita in viticci, le tempie in pampini e i piedi in radici. Dioniso afferra i riccioli e tra le dita si ritrova solo grappoli d’uva che, impastati di lacrime e sangue, si fanno gocce di miele, bevanda colore rubino. Ampelo ormai è diventato una vite adornata di foglie e acini. Di vivo ha solo quel nettare che stilla sulla fronte, sulle guance e sulle aride labbra del dio ad annegare il dolore. Da quel giorno Dioniso, in preda all’ebbrezza, si aggira nel mondo ballando e cantando e agli uomini offre il succo di lacrime e uva per ricordarci che non c’è gioia senza sventura, né morte senza rinascita e che solo alla parola – e quindi alla poesia – è dato di sconfiggere il tempo. E perfino la morte.

4) La tua è una poesia trasparente, magica, frutto di una lingua che non conosce il chiaroscuro, che guida la parola sull’onda della sua forza morale prima ancora che estetica o espressiva. Quali sono state le letture di poeti o poetesse, sia italiani che stranieri, che pensi abbiano maggiormente influito sulla tua ispirazione e sul tuo stile?   R. In primo luogo, i classici greci e latini, poi Dante, Petrarca e altri, per arrivare ai poeti del Novecento ai quali si sono aggiunte voci poetiche straniere che mi hanno affascinato, come Kavafis, Pessoa, Neruda, Brodsky, Auden. Infine i contemporanei, tra cui Maria Luisa Spaziani, che ho avuto il privilegio di recensire e presentare a Sciacca, il drammaturgo Paolo Messina, del quale ho curato, per il Centro Giulio Pastore di Agrigento, il volume Teatro. E poi molti altri che ho conosciuto personalmente.

5) Papa Francesco nel suo libro “Viva la poesia” ha messo in evidenza come sia importante riflettere sulla poesia e sull’essere poeti. In un mondo dilaniato dalle guerre, dai disastri ecologici, dalla mancanza di sensibilità nei confronti dei bisogni altrui, qual è oggi, a tuo parere, il ruolo del poeta nella società odierna? Secondo te c’è ancora posto per la poesia?  

R. In un mondo dilaniato dalle guerre e dai disastri ecologici, ma anche dal diluvio delle immagini, stiamo perdendo l’uso della parola. Per questo c’è tanto bisogno di poesia. La poesia è sguardo lanciato oltre il visibile e apre spiragli di salvezza a chi sa coglierli. Il poeta sceglie le parole come la Pizia sceglieva le foglie per interpretare gli oracoli e va alla ricerca della parola giusta che traduca il linguaggio della psiche, che sia tramite tra il fondo oscuro dei sentimenti e la coscienza. La sua è una ricerca estetica, ma anche etica che risponde a un bisogno di autenticità e di giustizia. Il poeta fa scoccare la scintilla divina che è in lui, gioca con le parole, come fece il Padreterno quando creò il mondo con le lettere della lingua sacra, l’ebraica. Dalla sua specola osserva la realtà, la scompone, mette in relazione cose che hanno tra di loro poco in comune e le combina cercando la parola che obbedisca al suo dettato. Come un mistico, egli vive ciò che sente e gli dà voce. Materia dello spirito è stata definita la poesia, ma anche spirito della materia. Sulla materia infatti si macera il pensiero del poeta per spiritualizzarla e farne verbo, linfa che circola, irrora, rivitalizza, crea legami. 

 Mariza Rusignuolo

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