Il sentimento del mare – Evelina Santangelo
Il testo “Il sentimento del mare” si connota per una sua intrinseca peculiarità poichè emana una profonda poesia, la poesia del mare che, con le sue parole Evelina ha estratto dalla superficie e dalla profondità, e lo ha fatto con l’arte del racconto, con la sua sensibilità, dando voce ai suoi sentimenti di donna ferita nel fisico, nell’orgoglio, nel cuore, che si intrecciano e si amalgamano con i sentimenti delle persone cui dà voce. I suoi protagonisti non sono personaggi ma persone reali, ferite intimamente, persone con cui viene a contatto nell’isola di Lipari respirandone insieme la fatica, il dolore fisico e dell’animo. Il suo è uno scandaglio di vite e della sua vita, un mosaico di storie accomunate dal tema del mare, da cui fa capolino, il suo vissuto. Sono storie di naufragi e di approdi perché “il mare è un narratore che intaglia le storie nel suo ostinato andirivieni persino sulla roccia, che sia ritorno di schiuma o furia dei venti”. Il mare, sin dai tempi più antichi, è stato uno dei topoi più frequenti nella letteratura da Omero a Virgilio, da Petronio a Dante ed elemento di seduzione per letterati ed artisti soggiogati dal suo illimite e dall’incognita di attraversarlo. Nell’isola di Lipari l’autrice si fa isola nell’isola, ridisegna una storia del mare attraverso storie di memoria letteraria, di cronaca, e di testimonianza personale, storie che si intrecciano con la storia del suo naufragio, un naufragio appena scongiurato dalla vita con una grave crisi cardiaca, due bypass falliti e due angioplastiche semifallite, un naufragio matrimoniale e un crollo psichico che le ha tolto la scrittura e le parole di bocca. E allora l’autrice cerca nella solitudine raccolta di un’isola del Mediterraneo, di ricomporre i suoi pezzi. E’ un’illuminazione perché già sbarcata nell’isola di Lipari, in un localino seminascosto del porto, a Marina corta, sembra che un respiro profondo le liberi l’anima dal blocco interiore, dalla devastazione del suo io frantumato e che serpeggi l’afflato di una rinascita nel cominciare a mettere nero su bianco. La scrittura liberatoria, terapeutica, imprevedibilmente riemerge con il suo realizzato desiderio di tornare al mare mentre una miriade di pensieri, di coloro che l’hanno solcato le attraversa la memoria seduta lì, in quel bar di risse, davanti a un bicchiere di vino. Le isole Eolie, le mitiche isole in cui Ulisse fu aiutato dai venti favorevoli racchiusi in un otre nel suo viaggio di ritorno, le fanno da cornice, in questo tentativo di ritrovare sé stessa. Anche Il suo è un viaggio di ritorno un “Nostos” , un ritorno ed approdo dell’autrice alla vita, più consapevole, un superamento di quella sottile demarcazione tra essere ed esistere che impedisce talvolta di vivere in sintonia con il tempo, un ritorno a quanto le sembrava irrimediabilmente perduto, “la passione per qualcosa che ci fa sentire vivi”. Il mare, scrive l’autrice, a volte salva, è anche questa generosità, di prendersi carico delle delusioni altrui senza nemmeno sapere. E da quell’angolo di un’isola deserta, nel periodo invernale, affiorano flash back relativi l’ambito letterario, ecologico, politico, storico inerenti il mare e lei stessa diviene, tramite alcune interviste e confidenze che raccoglie presso alcuni abitanti locali, pescatori e madri di famiglia, indagatrice di vite che abitano l’isola. A ben guardare il mare uscito dalla penna di Evelina è un altro mare più analizzato, più scandagliato, più emozionale, rispetto al mare lirico tramandato da tanti testi di poeti e da scrittori italiani e stranieri, quasi antropomorfizzato in cui si proiettano i sentimenti più svariati che il mare ci restituisce “con innocenza” .
La novità che l’autrice porta nel testo è non solo uno sguardo diverso, relativo alla vastità e alle sconfinate storie che il mare raccoglie ma una nuova sensibilità del rapporto dell’uomo con il mare, un rapporto vissuto, autentico, in cui si pone l’accento sul sudore e la fatica dei pescatori di Lipari ma anche dei pescatori di Mazara del Vallo che si ritrovano nei fuochi incrociati della guardia costiera tunisina. L’autrice ascolta le voci di chi vive il mare, lo sperimenta e sopravvive tramite esso, pescatori, guardie costiere, madri in lutto, migranti, mediatori culturali, biologi marini, esperti di anatomia patologica, oceanografi, sub e nuotatori in apnea. Il suo è un incontro di tante umanità che finiscono col risarcirla e farle ritrovare sé stessa.
E questo suo modo di ascoltare tanti sentimenti ,attraverso il mare, si è rivelato anche per lei un’ancora di salvezza in cui dissolvere ansie e dolori per proiettarsi in un abbandono, in un mare che diventa per lei specchio emotivo e guida esistenziale. Il suo, inoltre, è il mare visto con una sensibilità femminile verso altre donne che ha un antecedente in Emily Dickinson e che fa da contraltare al mare letterario di tanti poeti da Pascoli a Montale a Ungaretti, a Baudelaire, a Whitman, a Melville, a Conrad, a Stevenson a Hemingway. Il suo sguardo, infatti, si posa sulle tante donne il cui sacrificio per il mare è stato ignorato o sottovalutato. E’ il caso del lavoro durissimo delle donne degli anni Cinquanta, non solo di Lipari ma di Stromboli, Vulcano, Salina, sottoposte a fatiche tali da mettere a rischio la sopravvivenza dei loro figli partoriti spesso sulla spiaggia e cullati in sacchi messi dentro le barche, lontane da quel riguardo per i mesi grossi della donna incinta di cui parla l’etnologo Pitrè o dallo stereotipo di donna borghese descritta da Ibsen nel dramma “La donna e il mare” e in cui l’alta e la bassa marea era metafora degli alti e bassi di un’esistenza piena di aspirazioni represse. La simbiosi di queste donne con il mare, a differenza di Ellida, protagonista del dramma de “La donna e il mare” nasce da un bisogno di sopravvivenza. Sono donne dalle figure asciutte e dalla pelle cotta dal sole che, spinte dal bisogno, escono talvolta in barca nell’oscurità della notte cantando e attirando le prede con la torcia, per conoscere la geografia dei fondali, le baie, i promontori, e che sanno orientarsi con le stelle. Ed è ancora sul tema della donna e il mare che l’autrice esplora il tragico vissuto delle donne giapponesi, le Amas, sirene delle profondità, la cui esistenza è stata da lei scoperta grazie ad una foto di Fosco Maraini inviatale da un suo amico artista. Si tratta di una delle tante pescatrici di perle, creature anfibie, dai corpi flessuosi, capaci di immergersi a trenta metri di profondità anche sessanta volte in un’ora e mezza e che, tornando a galla, emettono quel loro “fischio del mare” melodico. Nelle foto d’epoca queste donne sono ritratte nude ma la fine dell’incanto di quei corpi opalescenti, come il mare in cui si immergono, è che spesso quel mare, nascostamente può lasciarle menomate. E ancora viene raccontata la storia delle donne della sua famiglia, rievocate in un breve flash memoriale, la nonna vissuta a Castellammare del Golfo per la quale «il mare non esisteva. Era un’azzurrità che doveva stare al suo posto nel paesaggio insieme al sole » e la zia Ninnì, per la quale «il mare era una modernità scabrosa» non meno delle minigonne che lei indossava. Ed ecco emergere dalle pagine la storia di Donna Rosetta Ingargiola, una donna che ha perduto in mare tragicamente il marito e un figlio, forte e determinata, che si è incatenata con gli altri familiari davanti a Montecitorio per i diciotto pescatori mazzaresi sequestrati dalla guardia costiera libica, tra cui il figlio Piero, l’unico rimastole, riuscendo a parlare con i politici. E la narrazione dell’autrice non poteva non porre l’accento sulle tante donne in lutto che hanno perso in mare i loro figli o sul tragico evento riferitole dalla fotoreporter Marta Bellingreri vissuta in Libano, Giordania, Siria, che racconta di cinquanta donne nigeriane arrivate nel 2011 a Lampedusa dal mare e tutte morte nella stiva di una barca.
E il mare è testimone di un naufragio in cui si infrange il sogno di Donald Crowhurst, novello Ulisse dantesco, che nel tentativo di superare i propri limiti, nell’ottobre del 1968, si avventura in un’impresa titanica ed azzardata, cioè quella di compiere da solo una regata intorno al mondo senza scalo. Consapevole che non sarebbe mai riuscito nella sua impresa che prevedeva la partenza dall’Inghilterra, doppiare il Capo di Buona Speranza, navigando a sud dell’Australia e della Nuova Zelanda, doppiare capo Horn e infine tornare nell’Atlantico diretti verso nord, Crowhurst comincia a vivere un viaggio immaginario mentendo a tutti circa la sua posizione e la sua rotta e, arrivando all’orlo della follia, per gli stenti, la paura e il disagio, tiene ben due diari di bordo, uno reale ed uno fittizio a sostegno della sua menzogna. Il suo sogno si infrange al largo delle isole Bermuda e il trimarano Electron appare una povera cosa lasciata a marcire, in abbandono, nella costa caraibica – Chissà in quali abissi si sono perse – commenta l’autrice – quella tuta di cerata gialla e quella cravatta: le due anime del sognatore. E con la navigazione solitaria di Crowhurst corre, parallela, la sua navigazione solitaria in una narrazione dall’intreccio sinuoso e intrigante, con maestria, l’autrice, come in una tela, tesse il suo vissuto, che emerge a sbalzi. Ed ecco stillare dalla pagina un altro naufragio personale che la ferisce profondamente, quello del suo fallimento coniugale, di quegli occhi azzurri che l’avevano ammaliata e che si erano poi fatti vitrei, distaccati, che le avevano fatto vivere una navigazione sempre più immaginaria e solitaria. I significanti assumono significati vibranti e pieni di pathos in un climax ascendente, quasi piramidale, che coinvolge e affascina il lettore .
A tenere insieme queste narrazioni, sapientemente legate ed incastrate dall’occhio vigile dell’autrice è l’autrice stessa che si è messa ad ascoltare ciascuna voce e la sua voce interiore. Nel testo c’è una fusione panica con il mare che opera un ribaltamento del topos del naufragio, e il mare diventa sinonimo di rinascita per entrare in contatto con le verità del cosmo. Lo spazio di osservazione dell’autrice si allarga per riscrivere il rapporto antropologico con il mare, restituendoci una visione del mare profondamente radicata nello spazio antropico dell’isola. L’opera si caratterizza per una tensione narrativa trascinante anche sul piano della struttura compositiva. L’autrice si immerge, attraverso la scrittura, nel mare della sua esistenza e della sua vita e lo spazio narrativo diventa spazio dell’anima intriso di flash sfumati che hanno irrorato la sua e la vita della sua famiglia in cui si incuneano tematiche scottanti relative al mare come l’inquinamento, il superamento dei propri limiti, la fatica dei pescatori delle isole, le pescatrici giapponesi colpite da malattie del sistema nervoso per le loro immersioni.
Tali contenuti sono esposti con ricercata strategia narrativa e accentuato virtuosismo stilistico. L’autrice destruttura, infatti, l’impianto narrativo tradizionale in cui le sequenze sono cronologicamente ordinate, operando uno scarto tra fabula ed intreccio e inserendo flash back memoriali, dialoghi serrati, ampie descrizioni e riflessioni. La narrazione, inoltre, procede a quadri, con una tecnica quasi cinematografica, propria del cinema neorealista, in cui i personaggi tratti dalla vita dell’isola, su richiesta dell’autrice – intervistatrice – si raccontano, e in cui l’autrice monta sapientemente le varie sequenze narrative combinando una successione di storie visibilmente interconnesse dal tema del mare. Ciò che attrae il lettore, inoltre, è il sapiente uso che della lingua fa la scrittrice adottando ciò che Tolkien definisce il “vizio segreto” di un buon narratore e che consiste nella scelta oculata di suoni, nell’uso cadenzato di figure retoriche come ossimori, anafore, anacoluti che conferiscono musicalità, rendendo ogni pagina fruibile e piana per fluidità e ritmo. Su tutta la narrazione poi, emerge il punto di vista dell’autrice. Come in un quadro di Chagall lei si eleva al di sopra delle persone cui dà voce, e sembra che, abbandonando la sua fisicità, le accompagni, quasi suo alter ego, nel districarsi delle storie. Ed ecco emergere dalle pagine un affresco dell’isola di Lipari su cui l’autrice punta il suo sguardo appassionato, con le ataviche tradizioni marinare, con il ritmo e la cadenza del loro idioma locale, con la descrizione del paesaggio e argute riflessioni.
Nel testo allora, la scrittura si sostanzia di un caleidoscopio di suoni, forme, colori che avvolgono l’atmosfera rendendola accattivante e coinvolgente. E “La scrittrice”, direi con Sandra Petrignani, “abita qui”. Nel senso che abita le sue pagine corroborandole di un alone seduttivo e fascinoso in cui traspaiono le sue sensazioni, il suo sentire, il suo amore per la Sicilia e la scrittura. Le immagini dei luoghi descritti si sovrappongono, si intersecano, creando un tempo fatto di remote memorie e ogni luogo, investito della sua carica emotiva, si trasforma in simbolo. Il testo è dunque il sismografo del suo sentire e della sua visione del mondo in cui colori e profumi dell’isola prendono forma ammaliando il lettore e in cui l’autrice si “rialfabetizza” alla vita attraverso la parola scritta. Riprende per lei il battito per “quell’amata scrittura” decantata da Dacia Maraini e la gioia di trasformare un foglio bianco in una testimonianza che ha il potere di rimanere per sempre.
Le parole si dispongono nel foglio con cromie simili ai colori di un quadro di Van Gogh in cui l’artista, dipingendo il mare di Sainte Marie – De – la –Mer, sporcava il blu oltremare con tocchi rossi, arancioni, gialli, grigi, rosa, perché il Mediterraneo ha un colore cangiante e le pagine assumono misteriose vibrazioni di toni cromatici sfumati che seducono il lettore. Arricchiscono il testo numerose citazioni letterarie che hanno per oggetto il mare come La Perla di Jonh Steinbeck, il Moby Dick di Herman Melville o il Manoscritto trovato in una bottiglia di Edgar Allan Poe. Il testo non è ascrivibile ad un genere ben definitoperché pagina dopo pagina si reinventa e al suo interno include il genere autobiografico dal momento che l’autrice mette a nudo il proprio io, il genere psicologico in quanto scandaglia l’animo suo e dei personaggi cui da voce, il genere realista in quanto i personaggi che intervista sono pescatori, donne, pescatrici di perle, apneisti ecc.., il genere onirico perché questo testo sottende un sogno racchiuso in quella carezza dell’apneista, Gaetano Avarello, alla superficie del mare. Il sogno cioè di un mondo in cui i mari siano puliti e i cetacei possano non spiaggiarsi, in cui i ghiacciai possano non disciogliersi e le terre non scomparire e quella carezza sembra simbolicamente accarezzare i morti che vi sono annegati, i sopravvissuti e noi stessi che di questa bellezza faremmo parte se non fossimo così presi dalle nostre effimere vite terrestri. A ben guardare, dunque, il testo è una celebrazione del mare, simbolo di eternità e di immutabilità per eccellenza, in cui l’autrice proietta ciò che il filosofo danese KierKegaard chiama ripetizione. Nella sua opera dal titolo “ La ripetizione” del 1843 KierKegaard infatti, mette in evidenza la differenza tra ricordo e ripetizione. Nel primo caso l’oggetto del ricordo viene proiettato all’indietro generando infelicità, nel secondo viene proiettato in avanti, lo mantiene vivo per generare nell’individuo una condizione di felicità sempre nuova. Nelle pagine di Evelina si coglie una relazione esclusiva con il mare che proietta il ricordo in avanti provocando nel bagnarsi nell’acqua, nel mese di Novembre, nel farsi tutt’uno con tale elemento, un senso di benessere esistenziale che pone i cattivi ricordi in un angolo recondito dell’inconscio e facendo affiorare i ricordi positivi. Evelina Santangelo con questo libro, in cui trasforma il dolore in un’opera intrisa di estatica bellezza e poesia, ci ha regalato un’opera narrativa attraversata, per dirla con Pessoa, “di una poetica di sensazioni”.
Mariza Rusignuolo