Intervista a Salvo Piparo
Un tè fresco e profumato con Salvo Piparo cuntastorie del festino, della Santuzza, di Palermo e dei Palermitani. Un cuntu per sentire l’anima intensa dei vicoli, delle piazze, dei mercati che sanno di passato e chiedono futuro. Perchè cuntare e cuntarsi è tramandare, reinterpretando la realtà con la storia, con una lingua carica dei vissuti di una città contraddittoria. Una lingua che traduce continuamente chi siamo stati e chi saremo, dalla quale non bisogna difendersi per dimostrare cultura e senso civico. Palermo ci appartiene, ci riguarda anche nelle parole che spesso releghiamo negli angoli della vergogna e dell’indifferenza.
Che cosa rappresenta la “Santuzza” nella tua vita artistica e personale?
È un messaggio d’amore, è un’esigenza fortissima di parlare nel segno del bene alle persone. Questa città ha un fermento culturale che però implode e tutti quanti ci affidiamo a Rosalia, anche io lo faccio anno dopo anno. Penso che questa città debba giocare più a stare insieme e Rosalia rappresenta un momento di aggregazione, è una livella. Bisogna vivere tutte le dimensioni della nostra città anche quelle della lingua. Una madre non dovrebbe dire al proprio figlio è volgare parlare palermitano, solo i figli del popolino lo parlano. Invece non è così, perché il palermitano se noi lo sappiamo parlare, se noi non lo mortifichiamo e non lo strascichiamo è nobile cosa. Dietro a quel palermitano ci sono le radici che ci portano alla storia di Rosalia, alla storia della poesia in questa città e di noi, Palermitani, battezzati sotto il sacro “Monte”. Noi non dobbiamo rinnegare niente di quello che siamo, non abbiamo bisogno di rinnegare la bellezza di questa città.
Che relazione c’è tra il Genio di Palermo e S. Rosalia?
Il Genio è il nume tutelare della città, è la figura pagana, Rosalia è la figura religiosa, insieme salvano la città. Questa storia l’ho immaginata così, Rosalia diventa sposa celeste, vergine, ed è per questo che alla fine dei “Trionfi”, cioè dei racconti, delle ballate che la celebrano si mette in scena “l’aballu di li virgini”. Tutte le vergini del cielo ballano attorno a Maria e si raccontano, portando un messaggio d’amore. Il ballo è la conseguenza di un miracolo, Rosalia chiede a Maria di intercedere presso il figlio per salvare la città dalla morìa. Contemporaneamente il Genio, che non ha mai pregato, l’ho immaginato delirante mentre invoca il cielo, per mettere fine alla terribilissima peste. Il cielo manda la luna che è pagana e può parlare con il Genio, perché mai Dio, padre onnipotente, si presenterebbe al suo cospetto. Il Genio interroga la luna, ma lei è solo un’incantatrice di serpenti e non ci sente. A questo punto lei scompare ed il Genio non può che invocare Rosalia, l’unica speranza che porta con sé.
In 400A Palermo è una città contraddittoria quale sentimento secondo te prevale?
“Iu sugnu megghiu i tia e mi pozzu annacari chiossà ri tia” In questa città si annacano tutti, i Greci ci hanno dato le culle che in Greco si chiamano nache (le nache, la naca), e per questo il Palermitano si annaca. È un brutto vezzo che ha ereditato ed in qualche maniera lo fa con ostentazione. Noi la dovremmo smettere di annacarci per un po’ ed invece dovremmo predisporci all’altro, al prossimo a colui che ci sta accanto.
Perché hai deciso di raccontare il festino di Santa Rosalia intitolandolo 400A?
“400A” voleva essere una provocazione, perché è chiaro che c’è dentro un’allusione. Il Palermitano ha bisogno di quell’illusione. Se io avessi messo come titolo 400 anni, forse sarebbe stato troppo puritano, visto che i 400 anni richiamano il ritrovamento delle ossa della Santuzza. Invece questi palermitani li dobbiamo solleticare sempre con un pò di vastasaggine e quindi 400A rappresenta l’avamposto di 800A, un 800A ripulito. In nome di Rosalia non può che esserci un pensiero solo propositivo, un’energia bianca che veste dunque questo titolo e non un qualcosa di allusivo alla vastasaggine.
Se dovessi esprimere gratitudine per qualcuno chi ringrazieresti?
Ringrazierei mia moglie, lei aveva capito il mio talento per il teatro prima degli altri ed anche prima di me; mi ha indotto a farlo, mi ripeteva devi fare teatro, e mi portava a vedere delle rappresentazioni teatrali, ma io non avevo l’educazione. Al teatro mi portava a vedere “Lo zoo di vetro” in francese, “botta di sale”; mi ricordo che, l’anno in cui inaugurarono l’apertura del teatro Massimo, m’invogliò a vedere “I cavalieri della rosa” con i sottotitoli in tedesco, cinque ore di spettacolo, mamma mia! Io ci calavo la testa perché non la volevo perdere, per cui grazie all’amore un uomo si può salvare.
Raccontaci come hai iniziato a fare teatro
Io sono un figlio di questa città che non appartiene al teatro, non sono figlio d’arte, non sono facoltoso intellettuale, non sono “fisolofo”. Tutto quello che dico, lo dico senza filtro, di pancia. Io non sapevo neanche di fare il cuntastorie, ovvero di raccontare; quando ho conosciuto Frine, mia moglie, avevo 18 anni e lei ne aveva 17. Lei era con me quando mio nonno è morto e mi ha fatto riflettere sulla preziosa eredità che lui mi stava lasciando: “cuntare” storie. Io per riesumare la memoria di mio nonno ho cominciato a “cuntare” le storie che lui raccontava a noi, come quelle di Pietro Fudduni, non a caso il primo cantore di Santa Rosalia.
A chi appartengono le storie che ci racconti?
Le storie in metrica sono un patrimonio di questa città, appartengono a tutti, non appartengono soltanto ai pupari, ai baroni intellettuali accademici. Sarò impopolare, le tradizioni di questa città sono di tutti, tutto quello che è tradizione orale e popolare è stato tramandato di bocca in bocca dai nostri nonni, non solo dai nonni intellettuali di questa città. Tutto quello che appartiene alla “Vampa” di San Giuseppe “A pupa a cena”, “U cannistru” e tutta una serie di altri riti legati anche alla magia, come racconta Pitré nel suo straordinario museo, appartengono a tutti noi.
Che cosa rappresenta il festino per i palermitani?
Il festino è il Capodanno di questa città, la città rinasce e si proietta ad un anno nuovo. Io credo che noi tutti siamo parte di questi festeggiamenti che hanno inizio il 14 Luglio e si concludono il 4 settembre. Il 15 Settembre le spoglie di S. Rosalia sono portate in processione nella sontuosa vara argentea, però non capisco perché i Palermitani fanno folla il 14 e poi il 15 c’è solo un decimo della città, non lo capisco. Il festino è il 15, il 14 è la sua spettacolarizzazione e segna l’inizio delle celebrazioni. Se siamo devoti a Santa Rosalia non si può venire soltanto il 14, addirittura con Gaspare Simeti, dirigente culturale al Comune di Palermo, abbiamo sempre discusso di unire la Curia al Comune ed alla città, per fare un grande festeggiamento, una grande celebrazione. Tutto questo ha bisogno di gente che creda in questo progetto.
Lo spettacolo che ti manca e che vorresti fare?
Il 2 luglio forse sto per realizzare un sogno. Ci lavoro da quando avevo 11 anni, vi racconterò “Cavalleria rusticana” che nasce da un mio ricordo. Quando Francis Ford Coppola venne a girare il padrino parte terza, a quell’epoca io avevo 11 anni e dietro una transenna lo vidi piangere la morte della figlia “sparata”. Questa storia che è legata alla Cavalleria rusticana ci riporta ai fatti di Monreale, ed il perché ve lo dirò quel giorno.
Raccontaci della Palermo del domani
La Palermo del domani la immagino con meno cortili, nel senso di “curtigghi”, meno invidie e più risate, più aggregazione. Se c’è aggregazione, c’è leggerezza, le persiane rimangono aperte. Nessuno si deve scantare che entrano i ladri, perché una volta era così. Io sogno una Palermo com’era prima, mi dispiace non è tornare indietro, è andare avanti.
Marisa Di Simone